Il 9 settembre 1972, alla Rudi-Sedlmayer-Halle di Monaco di Baviera, all’epoca Germania Ovest, va in scena la finale olimpica USA-URSS davanti a circa 6500 spettatori. Una partita, nel periodo della Guerra Fredda, passata alla storia per gli ultimi tre interminabili secondi, che generarono polemiche per tantissimi anni a venire.
Il contesto
Dal 27 agosto al 9 settembre 1972, 16 nazionali si sfidano nell’ottava edizione dei Giochi Olimpici. La formula prevede due gironi da otto squadre: chi chiude il proprio raggruppamento nelle prime due posizioni, ha diritto a disputare la semifinale, mentre le rimanenti compagini si giocano i piazzamenti dal quinto al sedicesimo posto.
Neanche a dirlo, Team USA e Unione Sovietica dominano i rispettivi gironi: nel gruppo A, gli statunitensi si collocano al primo posto (7 vittorie in altrettante partite), davanti a Cuba (6-1), Brasile (4-3), Cecoslovacchia (4-3), Spagna (3-4), Australia (3-4), Giappone (1-6) ed Egitto (0-7). Nel gruppo B anche l’URSS chiude a punteggio pieno (7-0), davanti alla nostra Italbasket (5-2), Jugoslavia (5-2), Porto Rico (5-2), Germania Ovest (3-4), Polonia (2-5), Filippine (1-6) e Senegal (0-7).
In semifinale, l’URSS supera Cuba di soli sei punti (67-61), mentre Team USA non ha pietà degli azzurri guidati da Dino Meneghin (68-38). Nelle altre partite la Germania Ovest si posiziona al dodicesimo posto, battuta dalla Spagna, e la Jugoslavia chiude quinta, ma ciò che realmente importa è che USA e URSS si ritrovano in finale. Un match atteso da tutti, molto intenso anche per via del periodo storico in cui avvenne quella gara, ovvero la Guerra Fredda. Per di più, Team USA all’epoca non poteva ancora schierare i giocatori Nba e aveva vinto le precedenti sette edizioni delle Olimpiadi. L’Unione Sovietica ha dunque un unico compito: detronizzare gli americani e dimostrare di essere la nazione più forte.
Le squadre e i primi 39 minuti e 57 secondi
È in questo contesto che si disputa una partita sicuramente tesa e a basso punteggio. Lo starting five dell’URSS prevede Mishako Korkia, Alexandr Belov, Sharmuk Hamedov, Zurab Sak’andelidze, Sergej Belov, mentre dalla panchina si alzano Polivoda, Palauskas, Bolosev, Jadeska, Dvomyj, Vol’nov e Kovalenko, allenati da Vladimir Kondrasin.
Henry Iba è invece il coach degli americani, il cui quintetto è composto da Bobby Jones, Jim Brewer, Dwight Jones, Tom Henderson, Ed Ratleff, aiutati in uscita dalla panchina da Doug Collins, Davis, Bantom, Forbes, Burleson, McMillen e Joyce. In particolare, tenete a mente i nomi di Alexandr Belov e Doug Collins, ne sentirete parlare qualche riga più avanti.
In ogni caso la palla a due è alzata e lo spettacolo, da un certo punto di vista anche politico, può cominciare. L’URSS non ha timore e fin dall’inizio rimane avanti nel punteggio, conducendo all’intervallo di cinque lunghezze (26-21) e poi, nel terzo periodo, anche in doppia cifra di vantaggio. Team USA non ha però intenzione di arrendersi e inizia una vera e propria rimonta, arrivando a 10 secondi dal termine sul -1 e palla in mano. È il già citato Doug Collins a recuperare il pallone, lanciandosi in contropiede e subendo in penetrazione il fallo di Sak’andelidze. Due tiri liberi cruciali. Due tiri liberi che, ovviamente, trovano solo il fondo della retina. 50-49 per gli statunitensi a tre secondi dalla fine. L’URSS è spalle al muro e rimette il pallone da fondo campo.
Gli ultimi tre maledetti secondi
In tre secondi, l’Unione Sovietica deve attraversare tutto il campo e provare a segnare il canestro del sorpasso. L’impresa è decisamente complicata. La rimessa viene effettuata e l’URSS arriva fino a metà campo. Passano due secondi sul cronometro e la panchina dell’URSS sostiene di aver precedentemente chiamato timeout. Queste lamentele portano l’arbitro a fermare la partita.
Da regolamento, il timeout si poteva chiamare prima del secondo tiro libero. Il tabellone dice che manca un secondo, ma l’arbitro, dopo un conciliabolo con il consiglio olimpico, in particolare nella figura del segretario generale della FIBA, Renato William Jones, decide di ripartire con i famosi tre secondi da giocare. Tutti di nuovo ai propri posti. Altra rimessa da fondo campo, questa volta l’URSS tenta il lancio lungo, che però non va a buon fine. Team USA è convinto di aver vinto, c’è una mezza invasione di campo di tifosi, giocatori e staff. Sembra che gli statunitensi si siano guadagnati l’ottava medaglia d’oro consecutiva e invece, per la seconda volta, arriva la beffa.
Il cronometro è ripartito da un secondo, invece se ne sarebbero dovuti giocare tre, almeno così dicono gli arbitri e il segretario generale della FIBA. Tutti nuovamente ai propri posti, l’URSS ha la terza occasione per vincere la partita. Altra rimessa da fondo campo, l’Unione Sovietica tenta ancora il lancio lungo: Jadeska effettua un passaggio baseball, due difensori degli USA (Forbes e Joyce) si scontrano e Alexandr Belov, da vero rapace d’area, agguanta il passaggio e segna i due punti in lay-up. L’URSS vince 51-50 sulla sirena e Belov corre a più non posso verso la sua metà campo, festeggiando e festeggiato da tutti i compagni, i quali nel frattempo entrarono in campo a godersi la vittoria.
Il post partita
C’è chi dice che sia stato un segno del destino, c’è chi invece parla di complotto, chi di politica e chi parla di complotto politico. In qualsiasi caso, gli USA si sentirono privati della loro medaglia d’oro. Di certo, la partita era stata assolutamente combattuta, ma ciò che era successo nel finale di gara aveva dell’incredibile.
Gli americani decisero di fare ricorso, anche se il comitato olimpico negò la vittoria di tale ricorso – tre membri su cinque della commissione erano dei paesi dell’Est. Un altro complotto, si diceva. Rimase dunque il fatto che gli Stati Uniti non si presentarono alla cerimonia per ricevere le medaglie d’argento, le quali saranno collocate in una banca svizzera e mai più ritirate. Quella sconfitta aveva segnato le vite di quegli atleti. Addirittura, Kenny Davis, uno dei giocatori di quella squadra statunitense, scrisse nel proprio testamento che nessuno dei suoi eredi avrebbe potuto ritirare quella medaglia. Nel documentario su Netflix “The Redeem Team”, che tratta di come gli USA vinsero l’oro a Pechino 2008, c’è un breve passaggio in cui si spiega che Doug Collins fu invitato da coach Krzyzewski per parlare della sua esperienza olimpica.
Raccontò proprio di quei maledetti tre secondi, dicendo che “la mia squadra è legata dal dolore, non voglio che proviate lo stesso”. Disse loro dunque di godersi quella esperienza e di andare a conquistare la medaglia d’oro, cosa che poi quel Team Usa, guidato da Kobe e Lebron, si guadagnò. Gli stessi giocatori del Redeem Team, al termine della finale vinta contro la Spagna, andarono poi a salutare Doug Collins, presente a bordocampo in qualità di telecronista, omaggiandolo poi con quella medaglia d’oro sostanzialmente “sottratta” nel 1972 a Monaco.