Nella storia della pallacanestro professionistica americana, la scelta dei giocatori usciti dai College statunitensi, o chiamati da altri continenti per giocare nel favoloso mondo della NBA, ha sempre portato con sé tutto un corollario di attesa, di sogni e speranze che hanno avuto riscontro, più o meno positivo nella notte del draft.
Lo spettacolo della notte dei rookie
L’appuntamento con il draft NBA è uno degli avvenimenti più seguiti negli Stati Uniti. Lo sport giovanile ha una risonanza mediatica molto superiore rispetto a quella che in Italia fa capo agli sport più seguiti, come il calcio, il tennis, la pallavolo e lo stesso basket.
Ancora prima del passaggio tra i professionisti, i giocatori che popolano il campionato NCAA, destano un interesse concreto verso il pubblico che segue le vicende cestistiche degli USA.
L’anno scorso, per esempio, Zion Williamson, scelto alla numero 1 dai New Orleans Pelicans in procinto di perdere Anthony Davis, avrebbe catalizzato l’interesse di tutti gli osservatori.
Zion e i suoi avi
Il ragazzone della North Carolina, passato per Duke, è probabilmente il prospetto più interessante della nidiata giovanile degli ultimi 5/6 anni.
Prototipo del giocatore moderno, il numero 1 dei Pelicans sembra fatto su misura per dominare la lega nella prossima decade, cosa che non ha potuto dimostrare immediatamente a causa di un infortunio arrivato a inizio stagione, prima del blocco dovuto al Covid.
Un draft i cui effetti sono comunque ancora ben poco visibili, vista la stagione troncata a metà: per capire se “l’annata 2019”, porterà alle franchigie gli effetti sperati, occorrerà attendere alcuni anni.
Quello stesso numero di anni che abbiamo dovuto aspettare per capire l’effetto della scelta dei rookie delle stagioni passate, alcune fenomenali, altri disgraziate.
Fortuna e capacità
Non tutta la programmazione dei General Manager e dello Staff Tecnico di ogni squadra, riesce a performare con un certo successo.
Un esempio lampante di quanto sia difficile scovare i giocatori che meglio si comporteranno in NBA, è quello del 2009, dal quale uscirono Blake Griffin alla 1, James Harden alla 3, Steph Curry addirittura alla 7 e Demar Derozan alla 9.
Thabeet vs Curry
Tra questi tre fenomeni che hanno ben presto raggiunto lo status di All Star, si sono infilati, grazie alle scelte delle squadre, Hasheem Thabeet (2), Tyreke Evans (4) e Ricky Rubio (5).
In particolare, il centro tanzaniano preso alla seconda dai Grizzlies, non ha esattamente fatto le fortune delle innumerevoli squadre che ne hanno notato i pochi e impercettibili miglioramenti, tristemente retrocesso in G-League in più di un’occasione.
Se pensate a cosa ha combinato negli ultimi anni la stella dei Warriors presa alla numero 7, capirete che non è così facile scommettere su un prospetto.
Il draft del 1984
Ci sono stati degli anni poverissimi ed altri di abbondanza smisurata sotto questo punto di vista, ne abbiamo scelto 3 di questi ultimi, partendo da quello del 1984.
In più di un’occasione si è messa in risalto la ricerca spasmodica di questi ultimi due mesi che ha fatto capo alla barra rivelatrice di Google, presa d’assalto da milioni di utenti pronti a digitare le due paroline magiche “Michael Jordan”.
Netflix ci ha messo ovviamente del suo, proponendo la storia del 24 fin dal passaggio ai Bulls che lo prelevarono da North Carolina.
Una buona parte di questi utenti ha curiosato tra le pagine del web per andare a scoprire la storia dei 2 giocatori scelti prima di Jordan, Hakeem Olajuwon e Sam Bowie.
Olajuwon e Bowie prima di Jordan
Houston prese il nigeriano per l’assoluta necessità di un centro, componente di una delle due future “Twin Towers”, un modulo di gioco innovativo che prevedeva l’utilizzo di due centri, l’altro fu Ralph Sampson.
La scelta del giocatore africano fu felice, Olajuwon diventò addirittura Hall of Fame, ma anche Indiana aveva bisogno di un centro da girare a Portland e scelse, alla seconda, Sam Bowie, il quale, comparato a quella successiva, appunto, di Jordan, viene ancora oggi considerata la peggiore scelta della storia NBA.
Sport Illustrated lo additò come il più incredibile bidone di sempre, dando il via alla, tutto sommato giustificata, regola non scritta che avrebbe previsto negli anni a seguire l’indirizzo dei draft votato all’effettivo talento dei giocatori, più che alle esigenze di quintetto per la stagione in partenza.
Detto di Jordan, quel draft fu popolato da tutta una serie di mostri sacri del basket americano, Charles Barkley (alla 5), Alvin Robertson (7) e John Stockton (16) sopra gli altri.
Allen Iverson e Kobe Bryant
Il 1996 fu un altro anno di prodotti spettacolari che uscirono dalle loro università.
La scelta numero 1 fu, anche in questo caso, azzeccata: Allen Iverson, autentica divinità in quel di Philadelphia, fu preso immediatamente proprio dalla ex squadra di Julius Erving, ma scorrendo la lista dei suoi colleghi scelti in quell’anno, c’è davvero da leccarsi i baffi.
Sfortunata anche in questo caso la seconda scelta in mano ai Toronto Raptors che portarono a casa il centro Marcus Camby preferendolo ai futuri All Stars Abdur-Rahim e Marbury.
Ma ciò che fa più impressione porta la targa della scelta numero 5, quella di Ray Allen e di ben due fenomeni scelti con la 13 e con la 15, rispettivamente, tenetevi stretti, Kobe Bryant e Steve Nash.
James, Bosh e Wade
Ve li ricordate i “big three” di Miami?
Uscirono tutti dal primo giro del draft del 2003 e rispondevano ai nomi di Lebron James, Chris Bosh e Dwayne Wade.
Furono i tre principali artefici degli anni d’oro degli Heat, magistralmente orchestrati dal genio di Erik Spoelstra.
Un trittico perfetto ritrovatosi in Florida poco tempo dopo il loro approdo in NBA grazie alla scelta numero 1 dei Cavs, alla 4 dei Raptors e alla 5 per Wade, unico “autoctono” del trio delle meraviglie, che passò con gli Heat le sue prime 14 stagioni tra i professionisti.
Il 2003 segnò il passaggio al professionismo di altri All Star, a partire da Carmelo Anthony, scelto alla 3 dai Nuggets e Chris Kaman, draftato dai Clippers alla numero 6.
Sarà certamente un caso, ma ancora una volta la scelta numero 2 non portò i risultati sperati: il serbo Darko Milicic, preso da Memphis e girato subito ai Pistons, riuscì a conquistare perfino un titolo con Detroit nel 2004, proprio nell’anno da rookie e diede una mano a tutte le 6 squadre per cui giocò, ma non fece la stessa carriera dei suoi colleghi citati in precedenza.
Sono fin troppe, quindi, le dinamiche che governano il risultato di una scelta piuttosto che un’altra. Chimica di squadra, infortuni, rapporto tra i giocatori nello spogliatoio, stagioni che vanne bene o che nascono e crescono nel peggiore dei modi.
Ma la discriminante principale è il materiale umano a disposizione di chi deve effettuare le scelte, ruolo decisivo sulla riuscita della relativa programmazione.