Di personalità forti nel mondo dello sport se ne sono viste a migliaia, tutte con il loro percorso professionale che ne hanno fatto emergere le caratteristiche più disparate.
Nella storia della pallacanestro ce ne sono alcune che ci hanno regalato la parte più profonda di un universo lontano come quello dello sport professionistico statunitense. Una di queste ha fatto capo al genio e alla capacità comunicativa di Dan Peterson.
Per me… numero 1
Daniel Lowell Peterson è un americano duro, vecchio stampo, così come vecchio stampo è la città da cui arriva, Evanston, situata a nord di Chicago nell’Illinois, conosciuta per essere un centro universitario di non poco conto.
In questa parte degli Stati Uniti, qualcosa come 84 anni or sono, vide la luce per la prima volta nella sua vita, il personaggio di cui vi stiamo parlando, il quale ha dedicato tutta la sua esistenza, e continua a farlo, alla pallacanestro e al mondo dello sport americano.
Non ebbe un grandissimo successo come giocatore di basket, ma il suo interesse fu incentrato quasi fin da subito sui dettami tattici e strategici da inculcare ai giocatori.
Esplose subito come grandissimo studioso della materia, appendendo le scarpe da basket al chiodo in giovanissima età.
Allenatore nato
Nel 1958, a soli 22 anni, si laureò come insegnante di pallacanestro alla prestigiosa Northwestern University, dove capeggiano ancora oggi tutta una serie di gigantografie del giovane Daniel.
Bruciò le tappe ma senza evitare la gavetta, visto che, subito dopo la laurea, fece il vice allenatore nel Michigan prima e nel Maryland poi, lasciando ovunque una scia di estrema attitudine al sacrificio e alla voglia di imparare tutti i segreti da coach.
Dopo 5 anni ottenne una panchina tutta sua, a Neware, nel Delaware, dove fu head coach dell’omonima Università.
Al termine di quella esperienza si accasò in Cile dove, a capo della nazionale, portò la squadra fino al sesto posto dei giochi sudamericani.
Il grande salto italiano
Durante l’avventura cilena fu notato in Italia, precisamente a Bologna, dove fu chiamato dall’Avvocato Porelli ad allenare la Virtus per ben sei stagioni, portando a casa uno scudetto e una Coppa Italia.
Ma il vero amore della carriera di Dan Peterson, scoppiò dopo il passaggio alla corte di Milano dove passò la bellezza di 10 stagioni, dando il via al vero mito dell’Olimpia.
I fasti della Billy, tra gli altri sponsor di quel periodo, targata Peterson, portarono nel capoluogo lombardo 4 scudetti una Coppa dei Campioni e una Coppa Korac, oltre a due Coppe Italia.
Nel 1987 si ritirò da allenatore, lasciando la panchina per lunghi 23 anni, prima di tornare, sempre a Milano, per gli ultimi mesi della stagione, subentrando a Piero Bucchi nel 2011, avventura durata solo fino alla fine della stagione, quando abbandonò definitivamente la carriera di coach con l’eliminazione in semifinale a vantaggio di Cantù.
Italian Dan
Il periodo della sua prima esperienza milanese, quella più lunga, coincise con l’esplosione delle reti commerciali, Mediaset in particolare e si narra che fu proprio Silvio Berlusconi a volerlo a tutti i costi nella redazione sportiva di Canale 5, dove Peterson fu chiamato a commentare le partite di basket NBA.
Fu una specie di folgorazione per il pubblico italiano, travolto dai mille aneddoti e dalle curiose cantilene che il commentatore americano snocciolava in gran quantità durante le sue cronache, non solo su Canale 5, ma poi anche per Telemontecarlo, Tele+, RAI e SportItalia.
“Mamma busta la pasta”, “Mmmmmmm, per me, numero 1”, sono solo due delle perle che il “nano ghiacciato” portò nelle case degli italiani.
La prima frase entrò nel gergo comune, tanto che i giovani e i meno giovani dell’epoca cominciarono a utilizzarla nelle più disparate occasioni, soprattutto quando si trattava di dare un nome alle cose delle quali si intravedeva una fine piuttosto vicina.
La seconda, invece, fu un fortunatissimo ritornello sentito e risentito nei passaggi pubblicitari di una nota marca di tè, di cui Peterson fu il testimanial.
Wrestling & Co.
Pochi anni dopo Peterson dichiarò alla stampa specializzata che l’abbandono della carriera da allenatore fu tutt’altro che una scelta azzeccata, ma, per quel periodo, necessaria.
I motivi fecero capo ad un insaziabile voglia di vincere e primeggiare rispetto agli avversari, fonte di estrema delusione nel momento in cui le vittorie non arrivavano.
Di qui la decisione di abbandonare la competizione e dedicarsi completamente alla meno adrenalinica vita da telecronista che si ramificò, poi, verso altre strade oltre a quella della pallacanestro.
E Dan lo fece talmente bene, il telecronista, che da amante di tutto ciò che aveva lasciato in madrepatria, spostò il suo mirino verso altre passioni della sua vita: il baseball, arrivando da Chicago non poteva che essere tifosissimo dei Cubs e il football americano, fan sfegatato dei Chicago Bears.
È stato un vero e proprio precursore delle telecronache di Wrestling, quando in Italia quella parola era sconosciuta, tanto che si parlava ancora di “Catch”, i cui protagonisti furono i mai dimenticati Hulk Hogan, Andre The Giant e Monster Ripper.
A sottolineare la vena poliedrica di Peterson, vi sono da segnalare delle apparizioni in alcune sitcom dell’epoca, alternate alla stesura di libri e articoli di pallacanestro, tra cui una lunga collaborazione con la Gazzetta.
Un uomo instancabile che ancora oggi è impegnato a fornire consulenze verso chi intraprendere la carriera di scrittore e commentatore sportivo.