C’è una categoria di lettori, parliamo di lettori seriali, che hanno coi libri un rapporto continuativo che cade, prima o poi, nella curiosità della ricerca delle biografie di personaggi più o meno famosi che ci hanno lasciato qualcosa.
Se non siamo di fronte a qualcuno dotato esclusivamente di talento non coltivato, il denominatore comune delle persone fuori dalla norma è sempre e solo uno: la determinazione.
Lavoro e sudore
La leggenda sportiva di cui ci occupiamo oggi ha costruito una carriera epica su fondamenta solide, con una base impossibile da scalfire, perché fatta di quella materia indispensabile affinché il talento non vada sprecato.
Kobe Bryant non c’è più, le testate, i portali, i giornali, la stampa e i media in generale, hanno trattato l’argomento della sua scomparsa in lungo e in largo, tanto che quel tragico 26 gennaio sembrerebbe non avere più nessun segreto.
La memoria delle generazioni a venire potrà contare sulle immagini della carriera di un campione che per 20 anni ha lasciato a bocca aperta tifosi e avversari sul campo e sugli spalti NBA.
E sono sempre stati il lavoro e il sudore i mezzi attraverso i quali “Black Mamba” non ha mai abbandonato l’olimpo dello sport mondiale.
The Mamba Mentality
Comincia così il testamento che Kobe ha lasciato alla pallacanestro, ai ragazzini che verranno dopo, campioni o meno non avrà nessuna importanza.
Una lettera che ha fatto il giro del mondo, scritta e riscritta, corretta e rivista durante le sue trasferte in giro per gli Stati Uniti durante la sua ultima stagione, una sorta di passerella per il 24, più che una corsa a qualche obiettivo particolare.
L’ultima esibizione contro le squadre che ha affrontato decine e decine di volte faceva il tutto esaurito ai botteghini dei palazzi americani, gremiti all’inverosimile affinché nessuno potesse perdere l’occasione per ammirare dal vivo l’ultima danza del serpente più letale del pianeta che tirava un pallone ad un canestro.
Le lettera si chiude in questo modo: «Questa stagione è tutto quello che mi resta. Sono pronto a lasciarti andare. Sappiamo entrambi, indipendentemente da cosa farò, che rimarrò per sempre quel bambino con i calzini arrotolati. Palla tra le mie mani. 5… 4… 3… 2… 1… Ti amerò per sempre, Kobe».
Il confine tra allenamento e ossessione
Bryant non era un perfezionista dell’allenamento, sarebbe un aggettivo che non fa percepire appieno il significato della parola sacrificio.
Kobe non perdeva un minuto della sua vita a svolgere attività che non riguardassero l’obiettivo che si era prefisso: dare il massimo.
Levatacce quotidiane per presentarsi in palestra alle sei del mattino e un programma pregno di impegni ben concepito durante la sua giornata di faticatore del basket.
Pesi, corpo libero, panche, solitudine.
Una vita in cui non c’era spazio se non per gli affetti più cari e per la competizione.
Vincere senza trucchi
Ogni minuto della leggenda nata a Philadelphia era quindi votato ad implementare il proprio talento con formule fisiche atte a migliorare tecnica, resistenza, visione di gioco.
Spesso si legge di campioni che rimangono in palestra dopo l’allenamento a svolgere infinite sessioni di tiro, 300 tiri liberi, un modo proficuo per svolgere le post sedute atletiche sviluppando tecnica di tiro, concentrazione, miglioramento della fluidità del movimento, gambe, braccia, polso.
Per Kobe era la normalità.
Ci sono sempre tanti episodi da raccontare nella vita di uno così, tanti aneddoti, esperienze, pezzi di una vita troncata troppo presto ma vissuta al massimo.
Tutto ciò che Kobe ha dato a noi e alla pallacanestro gli è stato restituito in soddisfazioni economiche, 5 titoli NBA, vita privata e successi personali.
Una famiglia perfetta, una moglie bellissima e discreta, una figlia designata per diventare il mamba al femminile, con la quale Kobe aveva intrecciato un legame infinitamente intimo, legato da un filo che univa i due come nel romanzo di Sandro Veronesi, “Il colibrì”. Un filo che non si è spezzato nemmeno nel momento in cui il loro destino è stato spezzato in maniera tragica.
Iman Shumpert e il suo racconto
Per provare a rendere l’idea di come fosse importante la mentalità per un giocatore come Bryant, ci viene in soccorso un aneddoto raccontato in diretta radiofonica da Iman Shumpert che bazzica la NBA a risultati alterni.
Shumpert racconta di una visita di Bryant al suo liceo, qualche dimostrazione al campo, un allenamento con la squadra della scuola e poi il solito incontro in aula magna con tutti gli studenti.
Arrivò dalla platea una domanda che faceva riferimento ad un vecchio detto americano che fa più o meno così: “‘Non mettere tutte le tue uova in un cestino solo”.
Il riferimento alla potenzialmente dannosa ricerca spasmodica di successo in un solo campo della vita, è abbastanza palese.
Bryant prese la parola, visto che la domanda arrivò, in modo piuttosto impertinente se vogliamo, dopo la sua confessione agli studenti in cui lui ammetteva di vivere letteralmente per il basket, solo ed esclusivamente per il basket.
Rispose candidamente quello che un po’ tutti si aspettavano, non erano certo le domande a spaventarlo.
“È vero che qualche volta è meglio diversificare i propri interessi, ma questo discorso vale per chi non è sicuro di sfondare in qualcosa di unico, vuol dire che non è pronto e sta già fallendo in partenza.
Chi sa di poter arrivare è consapevole che si possa rompere qualche uovo, ma nessuno vieta di riempire il cestino di nuove uova e riprovare dall’inizio fino a quando non si raggiunge l’obiettivo“.