Un lungo periodo di digiuno ai Giochi Olimpici a cavallo tra gli anni 80 e 90, terminato con il quinto posto di Sidney 2000. E d’improvviso il miracolo firmato, ma solo sfiorato, da un gruppo umile, con tanta voglia di lavorare.
L’Italia di Carlo Recalcati
A Cantù se lo ricordano bene i tifosi di una delle realtà più affascinanti della pallacanestro italiana, 17 anni di militanza cestistica da giocatore e il gran rientro da allenatore di successo.
Tutto questo, in brevissimo, è Carlo “Charlie” Recalcati, gentiluomo milanese classe 1945 che, sia da coach che da atleta, ha fatto la fortuna di più di una squadra.
Intanto da allenatore di club ha messo in tasca tre scudetti con tre squadre diverse, Varese nel 1999, Fortitudo Bologna l’anno successivo e Mens Sana Siena nella stagione 2003/04 e da giocatore vinse due scudetti, entrambi con Cantù, due volte la medaglia di bronzo agli europei, e 3 Coppa Korac.
Il doppio incarico
Come succede spesso in una nazione come la nostra, i coach ai massimi livelli come lo stesso Recalcati, o come è accaduto recentemente a Romeo Sacchetti, accettano l’investitura che fa capo al doppio incarico di allenatore di una squadra di club e selezionatore, passateci il termine preso a prestito dal calcio, della nazionale di basket.
Recalcati non è mai stati uomo che non amasse le sfide e quella doppia investitura lo portò a tirare fuori da un nugolo di faticatori del basket nostrano, una squadra che ci rappresentò nel migliore dei modi in quegli anni, soprattutto se pensiamo alle Olimpiadi del 2004 in Grecia, ad Atene.
Recalacati, divenuto poi negli anni l’allenatore con più vittorie nella storia dei Campionati di Serie A, mise a punto una spedizione che tenne attaccati gli appassionati italiani di pallacanestro che seguirono le scorribande dei vari Galanda e soci.
Gli uomini
Il coach della nazionale costruì qule gruppo per dare continuità al piazzamento ottenuto a Sidney e l’idea fu quella di mettere in piedi una squadra della quale tutti avrebbero dovuto sentirsi protagonisti, nessuna prima donna per essere tutte prime donne.
E coì fu davvero, perchè di quel gruppo si ricordano allo stesso modo Galanda come Chiagic, Basile come Marconato, Bulleri come Righetti, Soragna come Radulovic.
Garri, Rombaldoni e uno rispolverato Gianmarco Pozzecco completarono un roster super omogeneo.
E attenzione, operaia non significa povera di talento, alcuni nomi che avete appena letto rimarranno impressi nel firmamento della storia della pallacanestro italiana, ma a quella Olimpiade il denominatore comune fu la forza del gruppo.
Lo scudetto conquistato da Siena allenata proprio da Recalcati, fece da trampolino a quella spedizione, tanto che fin dall’inizio del cammino azzurro, nonostante si partisse per Atene senza i favori del pronostico, i ragazzi terribili di Carlo, fecero capire che per loro sarebbe stata tutt’altro che una vacanza.
Il girone eliminatorio
Le brutte notizie arrivarono fin da qualche mese prima, quando fu estratto il nostro girone che prevedeva gli scontri con Serbia-Montenegro (costola forte ma non fortissima di quella che fu la Jugoslavia dei miracoli), Spagna, seconda ai precedenti europei, Argentina seconda ai mondiali vinti proprio dalla Jugoslavia, Cina e Nuova Zelanda.
Zoppicammo dopo una vittoria stentata contro la Nuova Zelanda, domata di soli due punti, ma furono le due sconfitte successive contro Serbia-Montenegro e Spagna a creare il rischio di buttarci fuori prematuramente dalle Olimpiadi.
Riuscimmo però a sbarazzarci molto facilmente della Cina dell’ormai figura mitologica Yao Ming e, successivamente dell’Argentina per una partita che avrebbe decretato il pazzamento della terza e della quarta classificata.
Fu così che, grazie all’avventura contro i sud americani, chiudemmo al terzo posto, eliminando Cina e, sorprendentemente, la Serbia-Montenegro.
Gli Stati Uniti e le partite a eliminazione diretta
L’Italia si qualificò così alla fase ad eliminazione diretta, con i quarti di finale in cui ci toccò la temibile nazionale di Portorico che, appena due anni prima, aveva suonato gli Stati Uniti ai mondiali di Indianapolis.
Gli stessi USA zoppicarono e non di poco a quelle Olimpiadi, fermati in semifinale dall’Argentina di Manu Ginobili.
Non erano certo gli USA del Dream Team di Barcellona, ma alcuni elementi di spicco e dal futuro radioso, facevano capolino in quella squadra, primi tra tutti Tim Duncan e Allen Iverson, i quali facevano da chioccia ad alcuni giovani di belle speranze come gli sbarbati Lebron James e Carmelo Anthony e Dwayne Wade.
L’Italia si sbarazzò tutto sommato facilmente di Portorico per 83-70, per poi compiere un vero capolavoro tecnico e tattico contro la fortissima Lituania di Songaila, Macijauskas, Stombergas, tutti in odore, presente o futuro, di NBA.
La finale contro Manu e gli “italiani”
Quello che poi fu l’allenatore di Varese, Ruben Magnano, sedeva in quel momento sulla panchina argentina, a capo di una squadra che contro di noi, a differenza di ciò che era successo nel girone di qualificazione, non sbagliò praticamente nulla.
Non vi sono ragioni particolari a causa delle quali il cronometro della partita si fermò quando eravamo sotto di 15, 84-69, i nostri avversari furono semplicemente più bravi e diedero vita ad un titolo olimpico storico per quella che fu po ribattezzata la “Equipo de sueňo”, a scimmiottare la dicitura “Dream Team”, marchio di fabbrica della nazionale statunitense.
Quella nazionale aveva un fortissimo accento italiano, calabrese, visto che ben 4 di loro ebbero a che fare con la mitica Viola di Reggio Calabria, Hugo Sconochini, Alejandro Montecchia, Carlos Delfino e lo stesso Manu Ginobili, allora in forza alla Virtus Bologna, più un paio di fenomeni come Andreas Nocioni e Luis Scola.
Della squadra italiana rimane, invece, lo splendido ricordo di un gruppo il quale ha insegnato a tutti che, quando si ha a che fare con uno staff tecnico di prim’ordine e uomini che si sentono un tutt’uno tra di loro, nessun risultato può essere precluso.