Non è possibile sbirciare dentro l’ego di Filippo Inzaghi, ma sicuramente essere diventato “il fratello del tecnico dell’Inter” deve fare un certo effetto, dopo una vita passata a essere quello che, in famiglia, sollevava i trofei.
Non è scritto da nessuna parte che un grande giocatore abbia già nel destino di diventare un grande allenatore. Per lo stesso principio, stilare gerarchie degli allenatori in base a cosa sono stati da calciatori non avrebbe senso. Se però parliamo di due fratelli, entrambi dalle eccellenti carriere agonistiche, allora la questione diventa un po’ più complessa. Sì, parliamo del caso di Filippo Inzaghi e del fratello Simone, oggi tecnico dal successo molto più grande rispetto a quello del suo ingombrante consanguineo.
Ma da cosa dipendono le fortune di un allenatore? Quanto contano una effettiva preparazione tecnico-tattica e il carisma giusto per farsi ascoltare dai calciatori, rispetto alla fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto?
Cerchiamo di capirlo, ripercorrendo le carriere parallele dei due fratelli piacentini.
Filippo e Simone Inzaghi: le carriere da calciatore
Nonostante siano separati da tre anni, le carriere di Filippo e Simone Inzaghi iniziarono in maniera analoga. Entrambi attaccanti, entrambi cresciuti nel Piacenza, entrambi mandati a farsi le ossa nelle serie minori. Gli “entrambi” finiscono con l’età dell’esordio in Serie A, a 22 anni: uno (Filippo) al Parma nel 1995, l’altro (Simone) a Piacenza nel 1998.
Poi le carriere dei due prendono direzioni diverse. Pippo diventa capocannoniere di Serie A con l’Atalanta, guadagnandosi la chiamata alla Juve e, dopo uno scudetto e quasi 90 gol in 4 stagioni, passa al Milan dove chiuderà la carriera, con 11 anni densi di successi (2 scudetti, 2 Champions League, una Coppa del Mondo per club e altro ancora).
Simone invece trova il suo ambiente ideale alla Lazio, vincendo subito uno scudetto e rimanendovi 6 anni. “Inzaghino”, come veniva soprannominato da giocatore, non è un bomber avido e prolifico come il fratello maggiore, ma segna a sua volta. La sua carriera si chiude tra Samp, Atalanta e due ritorni alla Lazio.
Gli Inzaghis e la Nazionale
Ciò che demarca maggiormente la differenza tra le due carriere è la maglia della Nazionale, che Simone ha potuto indossare solo 3 volte e sempre in amichevole. Erano tempi di grande abbondanza in attacco, da Vieri a Totti, da Del Piero a Toni e Montella, al fratello. Filippo chiude la carriera con 56 prezenze e 25 gol, ma soprattutto con un titolo di campione del mondo. Un piacere che Simone non ha mai potuto provare.
Pippo e Simone incarnavano anche due profili molto diversi anche caratterialmente. Il più grande si è costruito nel tempo la fama di grande viveur, le cui gesta notturne in coppia con l’amicone Bobo Vieri sono entrate nella leggenda.
Simone è sempre sembrato più centrato sul calcio, anche se ha appeso gli scarpini al chiodo molto prima rispetto al fratello. Inzaghino ha infatti smesso nel 2010 a 34 anni, Superpippo non ha mollato fino ai 39. La resilienza da calciatore di Filippo ha avuto un’influenza sulla sua esperienza di allenatore, per diverse ragioni.
Gli Inzaghis da Mister: due carriere agli opposti
Quando Filippo Inzaghi ha smesso di abitare le aree di rigore avversarie, Simone aveva già iniziato ad allenare da quasi due anni. Entrambi partiti dagli allievi, Simone alla Lazio e Filippo al Milan, i due Inzaghi vedono i loro percorsi differire anche per i momenti delle due società che li hanno lanciati.
Simone e la crescita “sostenibile” alla Lazio
Simone Inzaghi esordisce come tecnico della prima squadra da subentrato all’esonerato Stefano Pioli, nella primavera del 2016. In estate, tuttavia, Claudio Lotito aveva già orientato la sua scelta su Marcelo Bielsa. Purtroppo per lui (immaginate i siparietti Lotito-Bielsa che ci siamo persi), El Loco rompe con il patron fin dal principio, e quando la panchina rimane vacante, Lotito decide di puntare su un uomo di casa come il giovane Simone. Il primo anno è subito 5° posto con qualificazione in Europa League. Le cinque stagioni di Inzaghi alla Lazio vivono l’apoteosi con la qualificazione in Champions League (nel 2019/20) dopo 9 anni di digiuno.
Ad ogni modo, la positiva esperienza in biancoceleste lo pone come candidato naturale a panchine ancora più importanti, e infatti l’Inter sterza su di lui subito dopo il divorzio da Antonio Conte.
In nerazzurro, la reputazione di Simone Inzaghi cresce ulteriormente. Non che siano mancati i momenti difficili: è giusto ricordare che nella scorsa primavera si parlava di esonero immediato, qualora avesse perso col Benfica ai quarti di Champions League. La squadra era infatti reduce da 11 sconfitte in 30 giornate di Serie A, di cui tre KO interni consecutivi (Juve, Fiorentina e Monza). Poi l’Inter si è ritrovata come d’incanto e tutto, ma proprio tutto, è cambiato.
Filippo e la scottatura nel Milan decadente
Pippo Inzaghi ha invece avuto una carriera molto più travagliata, da tecnico. Come il fratello, ha esordito da allenatore della prima squadra nella società in cui era rimasto dopo avere smesso. La Lazio però ha storicamente meno pressioni rispetto al Milan, e il club rossonero era negli anni forse più difficili dai tempi della retrocessione in B con Giussi Farina. L’era Berlusconi al crepuscolo, la società in costante ricerca di un nuovo acquirente, ma le ipotesi asiatiche non si concretizzano. Nel frattempo, il rendimento della squadra crolla e, dopo il poker rifilato da Berardi, il club esonera Max Allegri chiamando alla guida Clarence Seedorf, che conclude il campionato. Nell’estate del 2014 il club esonera l’olandese e chiama un’altra bandiera alla guida della prima squadra: Filippo Inzaghi.
Il Milan che prende in mano Superpippo è però qualcosa di molto diverso dalla squadra per la quale in campo aveva segnato valanghe di gol. Le difficoltà finanziarie permettono solo prestiti e parametri zero, fra la tristezza di ritorni fuori tempo massimo come Kakà, vecchie glorie spente come El Niño Torres, e onesti mestieranti come Birsa, Paletta e Destro. L’annata è una conseguenza terribile, come il decimo posto che è il peggior risultato del Milan dal 1996/97.
Non era certo colpa di Inzaghi se il Milan era in un momento di triste marginalità, ma quell’esperienza lo ha in qualche modo bruciato. O, perlomeno, da allora Superpippo non ha più avuto chance in una big. Ripartito nel 2016 dal Venezia in Lega Pro, dove per poco non centra il doppio salto in A in due anni, Inzaghi senior riceve la chiamata dal Bologna, dove va a sostituire Roberto Donadoni. Qui la sua reputazione subisce un colpo fortissimo, visto che viene esonerato dopo 21 giornate da 2 vittorie, 8 pareggi e ben 11 sconfitte.
Superpippo non molla e riparte da Benevento in B, riportando le Streghe in A ma rifacendo il percorso a ritroso nella stagione seguente.
Poi ci sono altre due esperienze sfortunate a Brescia, dove fa un campionato di vertice ma litiga con Cellino in primavera, e a Reggio Calabria. La Reggina di Inzaghi era una squadra interessante, che però ha dovuto farsi strada nel mezzo di una situazione societaria poco meno che tragica, e che porterà il club al fallimento a fine stagione per inadempienza finanziarie. Lui, comunque, era riuscito a centrare i playoff e solo chi ha seguito le vicende degli amaranto sa quanto ciò abbia costituito una vera e propria impresa.
E a un’altra impresa pressoché disperata è chiamato anche stavolta, ingaggiato a ottobre per sostituire Paulo Sousa sulla panchina della Salernitana. Il bilancio per ora è deficitario e la sconfitta di lunedì sera in casa con la Roma lascia i granata sempre più staccati all’ultimo posto.
Da Inzaghi a Inzaghi: il curioso testa-coda in Serie A
Con la contemporanea vittoria dell’Inter a Firenze, si è così ricreato questo curioso testa-coda familiare: un Inzaghi in vetta e uno in fondo alla classifica.
Simone è stato sicuramente molto abile a imporre la propria visione di calcio, dimostrando di poter dire la sua ad alti livelli. Nella perfezione dei meccanismi dell’Inter 2023/24 c’è – e anche pesantemente – la sua mano, perché lo stile di gioco calza perfettamente alle caratteristiche dei singoli. Quando ciò accade, è una parte importante nel curriculum di un allenatore.
A Filippo non è successo altrettanto, in buona parte perché non ha mai trovato le condizioni per operare e costruire con pazienza. Di certo non è un tecnico modaiolo, non soffre di manie di costruzione dal basso e anzi le sue squadre amano moltissimo verticalizzare, quasi che in squadra ci fosse un attaccante come Superpippo. Uno da 291 gol in 624 partite ufficiali. Uno che ancora oggi, e chissà per quanti anni ancora, è il miglior marcatore italiano all time in Champions League con 46 reti. Uno che, suo malgrado, è diventato “il fratello del tecnico dell’Inter”.