Se si dovesse stilare una classifica dei campioni dello sport della nostra nazione, si farebbe fatica a capire chi ha regalato le maggiori gioie ai propri tifosi, non solo per la qualità delle imprese che li hanno contraddistinti, quanto per il periodo storico che li hanno visti primeggiare nelle loro rispettive specialità.
La verità è che il solito discorso trito e ritrito della possibilità di giungere alle informazioni tramite radio prima, televisioni poi, internet e social negli ultimi anni, ha cambiato il modo di percepire le vittorie passate e presenti dei nostri campioni.
Quella che contraddistinse la parte finale di una carriera così ricca di successi come quella di Gino Bartali, non si sottrae a questo enunciato, ma nonostante non fossero così dirette le fonti dalle quali abbeverarsi in un periodo così difficile come quello successivo alla seconda guerra mondiale, mantiene, o addirittura arricchisce, la magia di ciò che fece il nativo di Firenze.
Da guerra a guerra
Se avete cliccato per leggere questo articolo, non vi starete certo aspettando di leggere le notizie reperibili un po’ ovunque sulla vita privata e professionale di Bartali, ma un buon pezzo non dovrebbe prescindere da un’infarinatura su ciò che ha messo in opera un gigante come lui.
Gino Bartali, il 18 luglio 1914, nasce a Ponte a Ema, uno dei paesini che fanno da corollario al centro nevralgico della Toscana, quelli che è facile confondere con il territorio di Firenze e che si compenetra alla base della collina della Fantucchia insieme a tutta una serie di altri centri più o meno importanti. Ama la bicicletta fin da ragazzino, che utilizza per sollazzarsi e “fare gamba“, proprio ai piedi di quella collina, che diventerà poi una sorta di meta mistica per i tifosi di ogni età e gli appassionati di ciclismo, anche quelli che non ne hanno vissuto direttamente le sue imprese.
Bartali si spense nella sua Firenze, nella sua residenza storica di Piazza Cardinal Dalla Costa, altro simil-santuario diventato per molti un angolo silenzioso e pieno di magia. “Ginaccio” se ne andò il 5 maggio del 2000 e fu sepolto nel cimitero di Ponte a Ema, come da lui stesso richiesto.
In mezzo a queste due date, sono infinite le battaglie della sua carriera di ciclista completo, caratteristica immensamente lontana di un ciclismo che non esiste più, oggi totalmente annacquato da tutta una serie di dinamiche “altre“, come la necessità di raggiungere le vittorie tramite esasperate tecniche e strategie di squadra, che mandano in fuga gli uomini più forti nelle corse a tappe, tengono al riparo i velocisti più scattanti “lanciati” dai gregari nell’ultima parte delle grandi classiche, fanno affidamento sullo sprint lungo delle crono.
Non era un problema per Bartali occupare un’unica posizione tra quelle appena descritte, tutti lo consideravano un corridore completo, senza punti deboli, capace di sferrare attacchi improvvisi sulle cime più alte del Tour de France, così come sfidare a duello i migliori velocisti della sua epoca.
La doppia vittoria del Tour de France
Non è di certo quello di criticare il ciclismo moderno il fine di questo articolo, anche perché la passione che genera una corsa a tappe come, ad esempio, il Giro d’Italia, continua a rimanere intatta ormai da decenni ed è risaputo che chi entra nel cerchio magico del ciclismo, non ne uscirà mai più, a dimostrazione del fatto che sudore e fatica fanno da filo conduttore imprescindibile se si parla di ciclismo.
Bartali corse in modo professionale per poco più di 21 anni, dal 1934 al 1953, mettendo la firma in calce a ben tre Giri d”Italia, nel 1937, 1937 e 1946 e a due Tour, nel 1938 e nel 1948. È opinione di molti che se la seconda guerra mondiale non gli avesse fatto saltare buona parte delle stagioni più aspre del confronto bellico, il suo palmares sarebbe stato ben più ricco, visto che il campione toscano dovette fermarsi proprio negli anni potenzialmente più proficui per un corridore.
Dieci anni passarono dalle due vittorie alla Grande Boucle, ma mentre la prima assunse connotazioni quasi esclusivamente sportive, ricordiamo sempre che siamo comunque in pre fase bellica, la seconda coincise con una fatto storico italiano di una rilevanza che solo dopo qualche anno ebbe il riconoscimento che avrebbe contestualmente meritato.
Ricordando intanto che la distanza di 10 anni tra la prima e la seconda vittoria ad un Tour de France, rimane ancora oggi il lasso di tempo più ampio tra due vittorie al giro transalpino di uno stesso corridore, quello del 1938 fu il terzo trionfo di un corridore italiano dopo i due fatti registrare fa Ottavio Bottecchia nel 1924 e nel 1925. Dopo quel successo cominciò la proverbiale rivalità con Fausto Coppi, rispetto al quale Bartali era più anziano di 5 anni, e che vinse il Tour nel 1950 e nel 1952.
Una vittoria fantastica, una rimonta clamorosa
Il Tour de France del 1948 cominciò “in salita” per un Gino Bartali ormai già avanti negli anni, con tutta una serie di acciacchi dovuti proprio alla sua età, di fronte ad un pubblico ostile che si era identificato sulla nuova leva del ciclismo francese, l’enfant prodige Louis “Louision” Bobet, e, soprattutto, in virtù di una situazione politica italiana che tutto era fuorché serena.
Bobet aveva accumulato, dopo la prima metà del Tour, un vantaggio nei confronti di Gino Bartali di oltre 21 minuti e tutto faceva presagire all’ennesima corsa a tappe con poche speranze ridotte al lumicino per l’ormai vecchio campione italiano, situazione che spinse i caporedattori delle testate sportive più prestigiose dell’epoca, ad abbandonare anzitempo la corsa e richiamare gli inviati in Francia in Italia, per evitare ulteriori perdite di risorse economiche, sempre importanti per il proprio giornale.
A quella edizione, la numero 35 della prestigiosa corsa, parteciparono 120 corridori, decimati, come sempre accadeva, all’arrivo di Parigi, dove tagliarono l’ultimo traguardo in 44.
Tra di loro il capofila fu un fantastico Bartali, capace di disputare una seconda parte di Grande Boucle da mille e una notte, durante la quale quel vantaggio si assottigliò fino ad essere colmato, anche in virtù di una prorompente crisi dello stesso Bobet, che chiuse addirittura quarto, dietro anche al belga Brik Schotte, secondo a 26 minuti dall’azzurro e al connazionale Guy Lapébie, sul podio a ulteriori due minuti da Schotte.
In quella occasione furono epiche le vittorie nelle prime due tappe alpine, in particolare la prima, la Cannes-Briançon, durante la quale sull’ormai mitico Colle dell’Izoard, Bartali si liberò dei suoi più accaniti avversari, primo, o se preferite, ultimo tra tutti, l’altro francese, Jean Robic. All’arrivo a Briançon, Bartali scoprì di avere mangiato a Bobet quasi tutto il distacco, per poi doppiare la vittoria della tappa appena citata e conquistando la maglia gialla all’arrivo ad Aix-les-Bains a partire dalla quale quello sgargiante giallo non fu più sottratto al campione fiorentino fino ai Campi Elisi.
Un periodo storico difficile e la vittoria salvifica
Durante una giornata di riposo a quel Tour de France, esattamente il 14 luglio del 1948, l’Italia visse uno dei momenti più bui della propria storia politica, visto che verso la fine della mattinata, al termine di una seduta parlamentare atta, come tante in quel periodo, a provare a dare una forma ordinata e pacifica alla Repubblica Italiana nata pochi anni prima in virtù del Referendum, alcuni colpi di pistola raggiunsero la schiena e la nuca di Palmiro Togliatti, all’epoca Segretario del Partito Comunista.
Togliatti fu vittima di un attentato orchestrato, si disse, da un’unica mente, quella di Antonio Pallante, che utilizzò una calibro 38 i cui proiettili non ebbero una spinta penetrante eccessiva, fatto, questo, che probabilmente salvò la vita al Segretario.
Quell’episodio però scatenò tutta una seria di idee tumultuose di determinate aree politiche del Paese, mai sfociate in una vera e propria azione per una concatenazione di episodi come l’appello dello stesso Togliatti che chiese ai militanti del Partito Comunista di “Stare calmi e non fare follie“.
L’altro “deterrente“, peraltro sempre smentito dallo stesso Bartali, fu proprio la sua seconda vittoria al Tour de France, visto che il dualismo che lo vide protagonista contro Fausto Coppi, venne alla luce anche per via delle idee politiche distanti dei due, vittoria che, secondo le cronache dell’epoca, compattò il Paese salvo a quel punto da tumulti di ogni sorta.