Così fa male. La seconda eliminazione di fila dell’Italia ai Mondiali è un fulmine a ciel sereno che sconvolge il mondo del calcio nostrano, specialmente dopo l’euforia di una vittoria agli Europei che aveva in qualche modo spazzato via i dubbi di questi anni e rinvigorito sogni e speranze.
A risvegliare tutti è stato uno schiaffo tirato da Trajkovski al 92′ di uno spareggio che doveva essere pura formalità e si è rivelato invece un’incubo a occhi aperti.
Il mattino dopo degli azzurri è l’inizio di un giorno di cui non si conosce la fine, in cerca di risposte, di motivazioni, di colpevoli. Domande a cui proveremo a dare una qualche, inutile, risposta.
Una pura formalità
Doveva essere solo un antipasto, un “entree” per testare il polso a quello che sembrava il nostro primo e unico avversario verso i mondiali, il Portogallo di Ronaldo. E invece il nostro nemico era molto più vicino e no, forse non era nemmeno quella Macedonia che alla fine ci ha sconfitto.
Il Barbera di Palermo sembra la cornice perfetta per coltivare il sogno, finalmente gremito come nelle grandi occasioni, prima che la pandemia cambiasse del tutto la nostra percezione degli spazi. E gli azzurri partono con il piede giusto, aggredendo un avversario che sembra più uno sparring partner che un reale pericolo.
I numeri sono impietosi da questo punto di vista: 32 tiri per l’Italia a fine partita (solo cinque in porta però) contro 4, un possesso di palla intorno al 65%, qualcosa come 16 calci d’angolo a zero. Un dominio. Uno sterile dominio. Perché se la Macedonia no passa la metà campo, noi non riusciamo a sfondare. Nemmeno quando la porta è vuota e Berardi la appoggia piano verso il portiere.
L’epilogo purtroppo è cosa nota, con Trajkovski (“Tu quoque”… figlio di Palermo…) che al novantaduesimo scaglia quel pallone alla destra di un Donnarumma sorpreso, come tutti noi.
Una beffa, un tragedia (sportiva), una delusione, che lascia l’amaro in bocca delle tante occasioni sprecate. In questa sfida così come nelle precedenti.
Come si è arrivati alla disfatta
Scese le lacrime, accantonata l’amarezza, subito si sono scatenate le critiche che hanno coinvolto un po’ tutti e tutto, così come del resto era accaduto anche in occasione dell’altro spareggio, quello di Ventura contro la Svezia, finito allo stesso modo.
Stesso esito, ma storie ovviamente molto diverse. Perché ogni paragone suona stonato, di fronte a un fatto evidente: otto mesi fa eravamo sul tetto d’Europa, a osannare il coraggio e la forza di questa stessa squadra e di questo stesso allenatore, un Mancini capace di scrivere numeri record nella sua gestione e di farci tornare a sognare, oltre che vincere.
Che cosa diamine è successo da allora? Sul campo è successo che in otto partite siamo riusciti a vincerne soltanto due (di cui una contro la Lituania e una in Nation League), poi pareggi molto deludenti (contro squadre di basso livello come Bulgaria o Irlanda del Nord, per non parlare dei due decisivi contro la Svizzera) e le sconfitte contro Spagna (e ci può pure stare) e Macedonia (impossibile anche solo da immaginare alla vigilia).
Si è detto che alla ripresa dei campionati la condizione non fosse ottimale (settembre e ottobre del resto sono sempre fasi molto critiche per gli azzurri) e che certamente molto era imputabile alla sfortuna (o alla mancata precisione), vedi quei due incredibili rigori sbagliati da Jorginho contro la Svizzera.
Resta il fatto che in otto partite per ben tre volte non siamo riusciti a segnare nemmeno un gol (nelle precedenti 30 partite era successo solo una volta).
I motivi del tracollo italiano
Il dato di fatto è uno al momento. L’Italia resterà fuori dal mondiale per 12 anni interi. Un’intera generazione di giovani tifosi, di fatto non vedrà mai giocare gli azzurri nel torneo più importante del mondo. E in un periodo storico dove ci si appiglia anche alle gioie più frivole, è una mancanza non da poco.
Il “day after” l’eliminazione, tutti cercano come solito di trovare i motivi di questa cocente delusione. Frasi e domande che sono poi le stesse che si fecero cinque anni fa, là dove di fatto nulla è comunque cambiato. Repetita iuvant, o forse no.
- Il calo di motivazione degli azzurri
L’Italia che ha vinto gli Europei di calcio non era la squadra più forte, questo mi sembra assodato. Eppure era forse quella che aveva più “fame” di vittorie di tutte. E lo dimostrava ogni volta che scendeva in campo, sempre concentrata, sempre impeccabile se non altro da un punto di vista prettamente agonistico.
Persino quando, come contro la Spagna, gli avversari correvano più di noi e tenevano il campo meglio di noi, la sensazione era di un muro quasi invalicabile, di un gruppo compatto dedito a un’unica causa. Ovvio che dopo una vittoria di quel calibro, storica a suo modo per tanti motivi, qualcosa viene per forza a mancare e quella “fame” tende a scemare, volenti o nolenti.
Non è un qualcosa di consapevole o cosciente, ma capita a tutte le grandi squadre vincenti. Per quello molte volte, è necessario rinnovare proprio quando si è all’apice, cambiare per avere sempre motivazioni altissime. Ecco, questo Mancini forse non è riuscito a farlo, dando fiducia al gruppo di “senatori” che quell’Italia hanno contribuito a farla grande.
Da Bonucci e Chiellini, passando per Verratti e Jorginho e finendo con Immobile e Insigne. L’ossatura portante di questi anni e, al contempo, i grandi assenti proprio nei momenti cruciali del dopo Europeo. Che fosse ora di puntare su volti nuovi dopo l’exploit europeo?
- In Italia giocano troppi stranieri
Il grande ritornello del dopo eliminazione (oggi come allora) è sempre quello: nel campionato italiano giocano troppi stranieri. Allora, su questo forse c’è da fare un po’ di chiarezza.
Da un punto di vista numerico, il campionato con la maggiore percentuale di giocatori stranieri è la Premier League (65,5%), seguita proprio dalla Serie A (62%), poi staccate la Bundesliga (54,4%), la Ligue1 (53,9%) e la Liga (43,6%). C’è quindi senza dubbio un fondo di verità in questa problematica, peraltro non nuova (e non risolta) in tutti questi ultimi anni.
Parimenti l’Inghilterra, dove giocano molti più stranieri, è comunque ampiamente qualificata ai mondiali (ed è stata anche nostra avversaria nella finale agli Europei) oltre a sfornare giovani talenti a ripetizione. Parliamo però di un campionato decisamente più performante, dove in effetti molti giovani sono ripetutamente messi in campo anche dalle squadre maggiori. E resta il fatto, che come nazionale i buoni inglesi non riescono più a vincere nulla da parecchio tempo.
Il punto semmai potrebbe essere un altro: quanti minuti giocano i giovanissimi talenti italiani nel nostro campionato (rispetto magari agli altri)? Il dato di fatto è che contro la Macedonia, a un certo punto l’attacco italiano era quello del Sassuolo. Con tutto il rispetto per gli emiliani ovviamente, ma potrebbe essere un segnale di allarme da prendere in considerazione.
- Investire sui giovani
C’è anche da sottolineare una cosa però. Che il “sistema calcio” abbia bisogno di una regolata è indubbio (lo ripetiamo, non certo da ora, a caldo dopo l’eliminazione), a cominciare però soprattutto dai settori giovanili.
Da anni si assiste in fatti a un fenomeno particolare, dovuto in gran parte dalle insicurezze che porta fare pesanti investimenti su ragazzi italiani giovanissimi, per poi spesso vederli andare via senza un reale guadagno di ritorno. Motivo per cui soprattutto molti “top club” italiani preferiscono affidare la crescita dei propri giovani ad altre realtà, per poi riprenderli solo quando sono fatti e finiti. Nelle prime squadre infatti, spesso non c’è posto per far crescere giovani talenti, se non in rarissime occasioni.
Parimenti, ecco un fiorire di giovani talenti stranieri venire a crescere nei nostri settori giovanili, presi a poco prezzo da altri paesi e poi cresciuti e dati in prestito in attesa di una possibile plus-valenza.
Morale, sì forse in Italia si punta poco sui giovani e di certo si fa fatica a fargli trovare spazio nelle prime squadre (soprattutto dei top club). Ma siamo poi così sicuri che sia un problema prettamente “numerico” e non di “sistema”? L’impressione è che per risolvere le cose, sia necessaria una rivoluzione dal basso, anche dal punto di vista giuridico, contrattuale.
Il futuro di Mancini
Il “dopo-Svezia” a confronto è stato facile. C’era una squadra a pezzi a partire dalla direzione tecnica, bastava intanto intervenire su quella per dare una prima svolta. Via Ventura, avanti il prossimo.
Ma qua davvero, diventa più difficile pensare a un post-Mancini come soluzione unica e imprescindibile. Non che anche il tecnico non abbia le sue colpe (insistere su alcune scelte è sembrato criminale a volte), ma di fatto un cambio al timone non risolverebbe il problema di base.
Meglio forse continuare con chi è riuscito a portare l’Italia di nuovo ai vertici (l’Europeo ma anche una striscia record e un gioco per gran parte spettacolare, fino a un certo punto). Oppure provare un cambio che se non altro offrirebbe un azzeramento delle vecchie gerarchie, cosa che comunque potrebbe fare lo stesso Mancini aprendo un nuovo ciclo.
Insomma la scelta tecnica non è poi così scontata, e malgrado la delusione e i tanti difetti, un Mancini Bis potrebbe anche venire fuori. In attesa, il primo nome è sicuramente quello di Fabio Cannavaro, che però non è detto possa fare meglio con questo stesso capitale umano. Che poi a ben pensare, stiamo comunque parlando di un bilancio di 4 sconfitte in 47 partite. Peccato che alcune, come questa contro la Macedonia, siano state pesantissime da digerire.
Quello che ci aspetta quindi è un’incognita, che parte da mille parole (le stesse già sentite e risentite), ma che ora più che mai, c’è bisogno che diventino azione. In qualsiasi modo possibile.