La formula perfetta non esiste. Kant vi direbbe che l’ideale è regolativo; esiste di diritto ma non di fatto. Un po’ come il cerchio perfetto di Giotto, che in realtà non è perfetto. Se la perfezione non esiste, però, che senso ha parlarne? O meglio: con quale diritto ci spingiamo fino ai confini del reale per strutturarci in base alle possibilità che esso ancora non ha aperto?
La nascita di un Milan irripetibile
Tutto nasce da un’intuizione. È la stagione 1986/87. Il Parma di Arrigo Sacchi è impegnato nei campi semi polverosi della Serie B inseguendo una promozione in A ancora acerba e che avverrà solo anni dopo. Ma l’occasione per il mister di Fusignano di affacciarsi al calcio dei grandi è un’altra. I Ducali affrontano il Milan di Nils Liedholm a San Siro per la Coppa Italia sia durante il girone eliminatorio che per gli ottavi di finale. In entrambe le occasioni, il Meazza è il teatro di un bizzarro sceneggiato: colpi di scena, difese straordinarie e contropiedi si susseguono nervosamente; alla fine, però, il risultato è lo stesso: il Parma vince. A cambiare, semmai, è l’attore protagonista: Fontolan a settembre, Bortolazzi a febbraio. Il regista è sempre lui: Arrigo Sacchi da Fusignano, che imposta un gioco frizzante e moderno.
Pressing, difesa alta, sincronismi consolidati. Lo chiamano calcio totale per un motivo molto semplice: tutti e undici i giocatori in campo difendono e attaccano all’unisono. Certo, se in campo hai Krol, Neskeens, Haan, Rep, Cruyff, puoi pure non essere un genio – appellativo che Michels e Kovacs meritano a pieno titolo –, ma le probabilità di fare un gran calcio sono a dir poco alte.
Berlusconi s’innamora di Sacchi, Sacchi non può che accettare il prestigio e l’ingente somma di denaro derivanti dalla panchina rossonera.
Lo scudetto in rimonta
Questa scelta così contro-intuitiva di Berlusconi inizialmente fa storcere qualche naso tra i tifosi e gli addetti ai lavori. Gli stessi giocatori sono sorpresi dai metodi di lavoro impostati dal nuovo mister, che basa tutto su preparazione fisica e ripetizione ossessiva delle fasi di gioco, per mandare a memoria i movimenti da fare in partita.
Sul fronte del mercato la squadra si rafforza molto e per assecondare le lusinghe del calcio totale arrivano due olandesi destinati a fare epoca: Ruud Gullit e Marco Van Basten. L’altro acquisto di spicco è fortemente voluto da Sacchi, ed è quel Carletto Ancelotti che alla Roma sembra ormai un giocatore finito. Viene da un paio di infortuni pesanti, e la funzionalità atletica non è ottimale: ai dirigenti sembra un assoluto controsenso che Sacchi voglia un giocatore così, ma è proprio il mister di Fusignano ad insistere. Ancelotti viene subito messo a ferro e fuoco e diventerà la vera propaggine di Sacchi in campo. Per capire la prreparazione sono proprio le sue parole a confermare la differenza di stile con altri allenatori.
«A inizio preparazione pesavo 84 chili, alla fine 68. Il terrore di tutti noi erano le scale che portavano alle stanze, non riuscivamo più a farle, ci veniva da piangere. Un calvario, sembravamo un gruppo di zombie. Quando sono tornato a casa, mia madre quasi non mi ha riconosciuto».
Questo radicale cambio nei metodi di lavoro causa inizialmente una sorta di crisi di rigetto, e il Milan sacchiano nei primi mesi viaggia a corrente decisamente alternata. Dopo l’eliminazione in coppa Uefa per mano dell’Espanyol, si vocifera di esonero imminente in caso di sconfitta nella successiva trasferta di Verona. Quella partita segnerà invece l’inizio del Milan di Sacchi. Parte dunque una vorticosa rincorsa al Napoli stellare che in quella stagione schiera uno dei tridenti più letali che la serie A ricordi, la celebre MA-GI-CA formata da Maradona, Giordano e Careca.
L’apice arriva nella madre di tutte le partite, quel Napoli-Milan del 1 Maggio 1988 vinto 3-2 dai rossoneri che rimane ancora oggi una delle partite del cuore per molti tifosi milanisti. Una gara che vede andare a segno anche il rientrante Van Basten, che aveva saltato una buona parte di stagione per via della sua fragilità fisica. L’uomo copertina di quello scudetto è allora Ruud Gullit, che con la sua straripante forza fisica domina il campionato.
Dopo l’Italia, l’Europa
Vinto lo scudetto il Milan di Sacchi fa quindi ritorno nella Coppa dei Campioni. La squadra è tutta da rodare in ambito europeo, e la scadente campagna Uefa di qualche mese prima, suggerisce al tecnico di Fusignano di programmare un fitto calendario di amichevoli estive contro le migliori formazioni del continente, per fare esperienza e guadagnare fiducia.
Durante l’estate la squadra è quindi protagonista di amichevoli di lusso, dove impressiona per la qualità di gioco. Vince addirittura al Bernabeu contro il grande Real, rifilando 3 gol in casa ai blancos. Ad aiutare Sacchi nella sua architettura della squadra perfetta è arrivato il terzo tulipano nel mazzo rossonero, quel Frank Rijkaard destinato a divenire il vero punto di equilibrio di un meccanismo impeccabile.
Se in campionato i rossoneri mollano velocemente il colpo, scoraggiati anche dal ritmo folle imposto dalla trapattoniana Inter dei record, in Europa spendono tutte le loro energie. Vengono superati scogli notevoli, come la talentuosissima Stella Rossa di Prosinecki e Savicevic, o l’arcigno Werder Brema di Otto Rehagel. Si arriva alle soglie del paradiso, con la semifinale contro il Real. Erano anni che il popolo rossonero non viveva notti come quelle. La gara di andata al Bernabeu è a tutt’oggi ricordata come una delle partite paradigmatiche del Milan di Sacchi. Gli stessi giocatori del Real diranno poi che nessuno si era mai permesso di giocare in quella maniera sul loro terreno. Lontano dalla tradizione italiana, che aveva sempre prediletto un calcio più attento alla difesa, quel Milan impone il proprio. Solo il caso, e un arbitraggio discutibile inchiodano il punteggio sull’1-1. Ma la resa dei conti è solo rimandata di 15 giorni quando il Real viene travolto a San Siro da un roboante 5-0.
La finale che si disputa a Barcellona il 24 Maggio contro la Steaua di Bucarest assume presto i contorni della formalità: il primo tempo si chiude 3-0 e il gol del suggello al trionfo lo mette Van Basten ad inizio ripresa. Un 4-0 che non ammette repliche e reso ancor più indimenticabile dall’invasione degli 80.000 tifosi rossoneri che possono sfruttare anche i posti destinati ai tifosi rumeni, cui è vietato lasciare il paese a causa delle ferree regole del regime di Ceaușescu.
Il dominio d’Europa continuerà anche nella stagione successiva, con la seconda vittoria consecutiva in Coppa Campioni, questa volta ai danni del Benfica di Eriksson, piegato da un gol di Rijkaard nella finale del Prater di Vienna. Non è un caso che i trionfi internazionali del Milan di Sacchi vengano griffati entrambi dagli assi stranieri, e olandesi in particolare. Questa squadra ha cambiato per sempre la percezione che il calcio italiano trasmetteva in Europa, contaminandosi con la frizzante vena pedatoria olandese. Ma dopo l’Europa il mirino si sposta un po’ più, verso il Mondo.
Dopo l’Europa, il Mondo
Grazie alla vittoria di Barcellona si torna quindi a giocare anche la coppa Intercontinentale, che non si vedeva in zona rossonera dai tempi della sanguinaria finale contro l’Estudiantes del 1969.
I giocatori non sembrano molto sul pezzo però alla partenza per Tokyo, dove si gioca la Toyota Cup, e prendono il viaggio quasi come una gita premio, distratti come sono dalle nuove diavolerie tecnologiche che all’alba degli anni 90′ nascono tutte in Giappone. Oltre ad una concentrazione non proprio irreprensibile ci si mette anche il fuso orario a complicare le cose, dato che i ragazzi di Sacchi non sono abituati a trasferte così lunghe. In mezzo a tutte queste preoccupazioni passa quasi in secondo piano l’avversario, il Nacional di Medellin.
I colombiani sono un’assoluta novità a questi livelli, e hanno come giocatore più rappresentativo nientemeno che Renè Higuita, il bizzarro portiere goleador che qualche mese dopo mostrerà il meglio, e il peggio, del suo repertorio ai mondiali di Italia 90′.
Con queste premesse la gara riesce penosa a dir poco, e per una volta l’ammirato Milan di Sacchi non riesce ad esprimersi a dovere. Parte del merito è anche dei colombiani, che in perfetto stile sudamericano impostano una partita fondata sulla grinta e la difesa ferrea. Inoltre Higuita sembra in giornata di grazia. Non bastano 90′ a decretare la squadra più forte del mondo.
Ai supplementari, la ricerca dei calci di rigore da parte del Nacional si fa ancor più esasperata, e il fortino colombiano sembra reggere. Mancano solo 2′ alla lotteria dei rigori. Higuita già pregusta il suo momento da protagonista. Il Milan attacca, spinto dalla frenesia di chi sa che sta buttando alle ortiche un’occasione d’oro. E guadagna una punizione dal limite, leggermente spostata sulla sinistra del limite dell’area.
Sulla palla Donadoni, piede educato e pronto a tentare il tiro sopra la barriera. Ma vicino a lui c’è Chicco Evani, all’anagrafe Alberigo, detto anche Bubu. Una vita in rossonero, anche nelle stagioni più buie. Un centrocampista di sostanza che non eccelle in niente ma è bravo in tutto.
Evani vede che Higuita ha commesso un piccolo, ma significativo errore: la barriera non è piazzata in maniera perfetta, e tra il primo palo e l’ultimo uomo della barriera si scorge una piccola luce dove far filtrare il pallone. Non ci pensa su due volte: arrota il sinistro, e la palla colpita in maniera secca si spegne all’angolo basso proprio dopo aver superato quel pertugio.
Higuita alza una mano provando ad ingannare l’arbitro ma la frittata è fatta per i colombiani. Per il Milan di Sacchi è invece l’apoteosi. Sul tetto del mondo, quando appena due anni prima sembrava che il mister di Fusignano non dovesse nemmeno mangiare il fatidico panettone.
Successo, questo, che sarà bissato in maniera più agevole 12 mesi dopo contro l’Olimpia di Asuncion completando un grande slam di trionfi consecutivi rimasto nella leggenda.
Ma la vittoria più importante per questa squadra sarà il tempo, che regalerà al Milan di Sacchi l’immortalità sportiva, ricordandola come la squadra di club più forte di sempre, e quella che ha stravolto per sempre il paradigma del calcio.