In quasi un trentennio di cronaca calcistica, Riccardo Maria Cucchi non è mai caduto vittima delle emozioni. Sarà il mezzo comunicativo, la radio. Che sta alla televisione come un libro ad un film. Saranno i maestri, da Ciotti ad Ameri passando per il nonno della radiocronaca Nicolò Carosio. Sarà l’epoca nella quale è nato e cresciuto, i favolosi anni ’60, e sarà anche il contesto culturale che ne ha plasmato la straordinaria figura e voce professionale amata da milioni di italiani. Ma in ultima istanza, paradossalmente, è proprio grazie alle emozioni che Riccardo Cucchi non è mai caduto vittima, in presa diretta, delle emozioni stesse.
Raccontare in radio, trasmettere emozione
« Prima di tutto bisogna essere emozionati, questa è la prima regola. Ho coordinato negli ultimi dieci anni il lavoro della redazione di Radio Uno e ho detto continuamente ai più giovani – che poi è un insegnamento che a me era stato trasferito dai grandi, da Ameri in particolare – che per emozionare chi è in ascolto bisogna essere noi per primi emozionati, bisogna emozionarci per poter emozionare ». Eppure come si spiega, allora, la trasformazione moderna del racconto sportivo, che ha in Caressa il suo principe indiscusso e che è passata dal principio della sottrazione a quello dell’aggiunta? Crediamo che la risposta risieda nel mezzo comunicativo.
Vedere una partita in televisione e ascoltarla alla radio sono due cose completamente diverse. Differenti, dunque, sono anche le funzioni del narratore. In televisione si vede tutto, dal tatuaggio del giocatore alla goccia di sudore sul suo viso. Gli zoom avvicinano e allontanano l’occhio della telecamera dal punto dell’azione, anche in diretta. L’esperienza per lo spettatore è più simile a quella di un film che ad una partita di pallone – la quale anzi, da Pasolini a Camus, veniva paragonata prima dell’avvento delle tv ad uno spettacolo di teatro. Va da sé che chi racconta un’esperienza visiva già così coinvolgente non ha solo il ruolo di raccontare le immagini, ma di caricarle di ulteriori significati. Per quanto riguarda la radio, il discorso è diametralmente opposto. « La partita “vera” è quella che vedono gli spettatori sugli spalti. Quella raccontata in televisione è, appunto, una narrazione. Sono stato bambino in un’epoca in cui il calcio non si vedeva, ma si ascoltava e basta ».
E ancora: « La passione per il calcio è nata attraverso la radio, perché il primo vero contatto che ho avuto con il calcio è stato quello offertomi nel passato dalle grandi voci di Enrico Ameri e di Sandro Ciotti. Tutto il Calcio è nato nel 1960; il 10 gennaio andò in onda la prima trasmissione, io sono del ’52 quindi avevo otto o nove anni. Inoltre seguivo le partite anche aiutandomi con l’album delle figurine della storica collezione Panini, nata anch’essa proprio in quegli anni, e quindi per me era piacevole sentire il nome di un calciatore e poi andare a cercare il volto per ricostruirne l’immagine ».
Il lavoro immaginifico del radiocronista è smisurato rispetto a quello, chiamiamolo barocco, del telecronista. Il quale, non a caso, è spesso ricordato in base ai suoi marchi di fabbrica – dalla sciabolata morbida di Piccinini al tè caldo di Caressa. Il radiocronista, invece, rivela Cucchi, deve semmai sottrarre, non aggiungere: « Per noi è addirittura un obbligo: come sappiamo bene, la radio ha bisogno di poche parole e giuste. Poi questo principio si può applicare anche al racconto in diretta, in particolare nello sport: in questi casi la regola della sottrazione è ancora più valida ».
Una voce composta e professionale
Cucchi, classe ’52, studia Lettere alla Sapienza, e qui si laurea. Sa dunque bene cosa significhi pesare le parole ancor prima di averci a che fare a livello lavorativo. Nel 1979 viene assunto dalla Rai dopo aver vinto un concorso per radio-telecronisti, e dal 1981 al 1991 sarà attivo nella sede molisana della radiotelevisione pubblica. Da qui comincia a lavorare con Tutto il calcio minuto per minuto, seguendo il Campobasso in Serie B. Collabora inoltre con 90° minuto. Inizia in questi anni ad affiancarsi in trasmissione a Sandro Ciotti (1992/93), suo totem insieme ad Enrico Ameri. Lavora anche con Alfredo Provenzali e oltre al calcio segue il canottaggio, la scherma e l’atletica leggera. Nel ’94 sostituisce Ciotti come radiocronista dell’Italia ad USA 94, e nel 2006 commenterà gli azzurri sul tetto del mondo. Un’emozione per lui indelebile, unica. « Nel momento in cui Grosso calciò il rigore che ci regalò il titolo mondiale provai una sensazione fortissima, talmente forte che ancora oggi non si è spenta l’eco di quella grande serata e, a volte, mi fermo ancora a pensare a quello che ho vissuto ». Andate, però, ad ascoltare la sua voce in quei momenti. La compostezza, nonostante tutto, è incredibile. Mentre l’istrionico Caressa si sgolava a poche postazioni da lui per i telespettatori di Sky, Cucchi ricordava con ordine e voce commossa le quattro date dell’Italia campione del mondo.
La sua ultima radiocronaca risale al 12 febbraio del 2017, con Inter-Empoli della 24° giornata di Serie A. Quel giorno San Siro lo omaggia con striscioni e cori, oltre ad una targa commemorativa. Poche ore dopo aver appeso le cuffie al chiodo, rivela in un’intervista di tifare Lazio da sempre. « “Per quale squadra tifa?” io rispondevo sempre “Se ce n’è una, lo saprete quando avrò smesso di lavorare”. Credo che dovrebbe essere una regola per chi fa il mio mestiere. Chi lavora alla radio, soprattutto nel Servizio Pubblico, parla a persone che lo ascoltano da Bolzano come da Caltanissetta, tifosi di ogni squadra che hanno il diritto di vedere rispettata la loro passione ». Un diritto che Cucchi ha trasformato in dovere. Un altro degli elementi che lo caratterizzano e ne fanno un professionista unico, irripetibile nel suo genere. È lui ad annunciare con voce allegra, ma mai irrispettosa del pubblico neutro, il secondo scudetto biancoceleste, dal Renato Curi di Perugia: « Mentre in questo istante Collina dichiara concluso il confronto. Sono le 18 e 4 minuti del 14 maggio del 2000: la Lazio è campione d’Italia ».
Grande professionista e grande uomo
Riccardo Cucchi è un grande professionista perché in primo luogo è un grande uomo. Un uomo di buon cuore che si è fatto portavoce di alcune battaglie – su tutte il femminismo – in netto anticipo sui tempi. Anche oggi, commentando il mondo dal suo profilo Twitter, sa dispensare perle di saggezza e brevi ma intensi messaggi per lo sport e la società tutta. « Oggi viviamo di inganni. Siamo circondati da persone che cercano di arrampicarsi socialmente mettendo davanti a tutto la loro personalità, il loro ego senza mettersi davvero al servizio delle persone. Questo vale nella politica, nella cultura, nel giornalismo ».
Non c’è niente di più bello e puro di un grande giornalista, che è insieme un grande uomo di cultura. Per Cucchi non esiste l’innamoramento del calcio via televisione. È un controsenso, una stortura del nostro tempo. Sarebbe come innamorarsi di una donna guardandola in un film. « Il giorno in cui mio papà mi portò allo stadio per la prima volta fu un’emozione incredibile. Ricordo perfettamente il momento in cui, salendo i gradoni dello Stadio Olimpico di Roma, mi è apparso davanti agli occhi il campo verde. Rimasi così colpito che ho continuato a rivivere quell’emozione ogni volta che sono entrato in uno stadio, fino all’ultimo giorno del mio lavoro. Quell’emozione mi ha accompagnato per tutta la vita ». La voce di un uomo, che è il pensiero di tutti noi. Grazie Riccardo.