Sono centinaia le citazioni raccolte da giornalisti e, più in generale, dagli addetti ai lavori che hanno avuto la fortuna di averci collaborato insieme, ma chi vi scrive ha deciso di scegliere questa che raccoglie lo spirito dell’uomo, ancor prima che dell’allenatore, che risponde al nome di Gregg Popovich.
Una storia che viene da lontano
Chi segue il giusto la pallacanestro professionistica americana, sa abbastanza bene che Gregg Charles Popovich arriva da lontano.
Arriva da lontano, intanto perché le origini non sono esattamente americane, visto che nasce nel 1949 a East Chicago nello stato dell’Indiana, da un papà serbo e da una mamma croata, e già qui ci sarebbe tanto da scrivere, visto che proprio nella pallacanestro ci sono amicizie nobili che si sono concluse in rivalità più o meno conclamate, se pensiamo ciò che di più tragico successe nella ex Jugoslavia.
Arriva da lontano come modo di concepire la pallacanestro, visto che la sua visionaria mentalità di coach precursore, lo porta a scoprire angoli di basket che mai nessuno aveva esplorato prima di lui.
Arriva da lontano anche per il modo di affrontare la vita e tutte le situazioni che gli si pongono davanti, fuori dagli stadi più importanti della pallacanestro mondiale.
Saltiamo, per una volta, tutta la gavetta che talvolta diventa tediosa, se si prova ad affrontare il percorso di un uomo di questo spessore.
Atterriamo direttamente al 1972, dove la sua carriera di allenatore comincia a prendere una piega abbastanza importante.
Gli Air Force Falcons
Anche i suoi inizi come coach all’interno di una scuola militare, sono conosciuti a tutti.
Popovich, infatti, fa parte della Air Force Falcons, che è un’accademia militare per aspiranti ufficiali dell’Esercito degli Stati Uniti, si trova a due passi da Colorado Springs ed essendo una sorta di College Militare, non può mancare la parte relativa allo sport dei futuri militari.
Tra i Falcons, i più dotati tecnicamente, vengono scelti per la squadra di pallacanestro, quadra che viene affidata a Popovich a partire dal 1972, seppur come vice-allenatore.
Dopo sei anni prova a buttarsi nell’avventura da head coach, al Pomona-Pitizer College, dove non ottiene risultati indimenticabili.
Ma è tutta esperienza.
San Antonio Parte I
Dopo un anno sabbatico, che lo stesso Popovich considera fondamentale per la sua crescita come coach, viene chiamato in Texas, a San Antonio, dove, dal 1988 al 1992, alla corte di Larry Brown, diventa uno degli assistenti più preparati.
Sono gli anni di giocatori come Avery Johnson, Sean Elliott e David Robinson e Popovich, più da comprimario che da protagonista, capisce quanto sia fondamentale l’alchimia di squadra e quello che, da queste parti, chiamiamo col nome di “spogliatoio”.
Alla fine del 1992, decide che è il momento di cambiare aria e, ancora una volta da assistant coach, si trasferisce ad Oakland e allena gente come Tim Hardaway, Chris Mullins e Sarunas Marciulionis, uno dei primi europei a giocare in NBA.
È un passaggio importante, questo, perché sarà proprio in quegli anni che Popovich imparerà da Don Nelson a creare miscugli mortiferi, i cui ingredienti sono originati da giocatori eterogenei, anche e soprattutto di diversa nazionalità.
San Antonio Parte II
L’anno 1996 è già quello del definitivo trasferimento a San Antonio, da dove non si sposterà più.
Il ruolo non è più quello di aiuto allenatore, ma di GM e Vice Presidente della franchigia, con larghissimi poteri.
Talmente larghi che dopo qualche mese licenzia Bob Hill, head coach di quella stagione, auto nominandosi a sua volta, capo allenatore.
Non furono poche le polemiche, gli strali lanciati dallo stesso Hill e da un ambiente che pensò subito ad una manovra preparata fin dal suo ritorno agli Spurs.
La verità è che il principio di quella stagione fu terribile per gli Spurs, visto che la squadra partì con un 3-15 che avrebbe ammazzato chiunque e a nulla servirono le 124 vittorie che Hill conseguì nelle due stagioni precedenti.
La squadra si divise, anche perché due dei giocatori più importanti della franchigia, erano fuori per infortunio in quell’inizio di stagione, David Robinson e Chuck Person e non erano in pochi a pensare che Hill avrebbe meritato un po’ più di tempo.
In realtà le cose non migliorarono con Popovich in panchina, se non sotto il punto di vista dello spirito di squadra, che poi servì a costruire a San Antonio un’aria diversa.
Il “Pop” chiuse con 17 vittorie e 47 sconfitte, lontanissimo dai playoff.
25 stagioni senza mai fermarsi
Da quel momento in poi comincia a crearsi una delle dinastie più nobili della storia dello sport.
Quella appena passata è la 25ª annata di basket targato Popovich a San Antonio e tutti sperano, dopo l’avventura da head coach alle Olimpiadi di Tokyo, che il sodalizio non si esaurisca.
Oggi Popovich è l’allenatore più longevo, sia della NBA che di ogni altro sport professionistico americano.
Nessuno come lui ha mai conseguito una striscia di vittorie consecutive, 22, nella regular season.
Ha portato gli Spurs alla conquista di 5 anelli, in tutta la storia sono solo 5 i capi allenatori che hanno raggiunto questo traguardo minimo.
Con la chiusura della scorsa stagione, “Pop”, ha conquistato il record di vittorie nella regular season come capo allenatore, 1.310 partite vinte, contro le 653 perse, una percentuale pazzesca del 66,7%.
Solo mostri sacri come Phil Jackson, Billy Cunningham e Steve Kerr hanno fatto meglio tra i coach che hanno allenato per almeno 5 stagioni in NBA.
Nessun allenatore ha vinto più partite di lui e fa parte dei 9 head coach che hanno tagliato il traguardo delle 1.000 partite vinte in carriera.
Solo Phil Jackson e Pat Reily, hanno vinto più partite di lui ai playoff NBA, ma quest’ultimo trema, perché sono 171 le sue vittorie, a fronte delle 170 di Popovich.
Tra i titoli a cui tiene di meno, Popovich è stato eletto tre volte allenatore dell’anno, e anche questo è un record.
La scelta di Tim Duncan
Quello che contraddistingue maggiormente la carriera di Popovich, è stato certamente il coraggio delle scelte.
Al Draft del 1997, quello successivo all’epurazione di Hill, fu Popovich a volere a tutti i costi la scelta di Tim Duncan, uno dei giocatori che più hanno cambiato il volto alla NBA moderna, e che ha dato il via alla costruzione della “dinastia Spurs”.
Si sapeva che Duncan sarebbe stato un buon giocatore, ma nessuno ci aveva visto lungo come l’allora neo allenatore degli Spurs.
Non sono in pochi a sostenere che Duncan sia stata l’“Ala Grande” più forte della storia della NBA, ma se non ci fosse stato Popovich, non avrebbe probabilmente raggiunto quei livelli.
L’alchimia tra i due, raccontano i compagni, era fatta di intese silenziose, nemmeno di sguardi compiacenti o mezze parole, erano proprio fatti uno per allenarlo e uno per essere allenato.
È vero che ci sono giocatori che cambiano il corso di una franchigia, ma nessuno ha mai cambiato una squadra come gli Spurs, così come ha fatto Duncan e, attenzione, non si pensi semplicemente al fattore tecnico, basterebbe mettere sul tappeto giocatori come Jordan e Kobe per smentire un enunciato di questo tipo.
Qui si parla di squadra, gioco e compagni…
L’esempio Spurs, l’esempio Popovich
Ci sono state molte squadre che negli ultimi anni hanno costruito delle stagioni vittoriose, seguite da altre vittorie.
Ma la differenza tra San Antonio e altre squadre, vengono in mente esempi come Heat e Warriors, è che gli Spurs hanno cresciuto i loro talenti in casa ed essi non sono mai voluti andare via.
I Big Three, formati oltre che da Duncan, da Manu Ginobili e Tony Parker, hanno sempre giurato eterno amore al Pop, sono riusciti in tanti anni a tenersi lontano dai guai, hanno risolto i problemi sempre dentro le mura dello spogliatoio, hanno epurato chi è arrivato con idee diverse.
Non sono poche le squadre che stanno provando a farlo negli ultimi anni, magari dietro a una costruzione di squadre pregne di giocatori “Free Agent”, Oklahoma è un valido esempio, magari non supportato da risultati immediati, vedremo cosa succederà nei prossimi anni.
Il vero significato di “squadra”
Quando Miami riuscì a vincere con i suoi Big Three, è risaputo che i campioni di quella magica squadra arrivavano da realtà diverse e trovarono un’alchimia immediata.
Provarono a fare lo stesso i Knicks e i Clippers, ma i risultati furono disastrosi, nonostante il talento che questi due team potevano mettere in campo, con gente come Carmelo Anthony, Stoudemire, Chris Paul, Blake Griffin, ma la via per la vittoria, se vuoi rimanere a lungo uno di cui si parla, non è questa.
Pop costruì una squadra su Duncan, unico giocatore scelto alla lottery, mentre gli altri, Parker, Manu, e tutto il supporting cast che ha girato intorno a loro per anni, non ha mai beneficiato di una scelta altissima.
Ma se ci pensate bene, è difficile trovare una stella al comando nelle annate d’oro degli Spurs.
O forse sì, forse una c’è stata e si spera che brilli ancora per tanto tempo.