Se da un lato gli eSports continuano nella loro fase espansiva, “aiutata” anche dalla pandemia di COVID-19 che spinge un numero crescente di persone verso l’intrattenimento virtuale, dall’altro qualche scricchiolio si fa sentire, soprattutto quando si parla di professionismo ad alto livello (e quindi alto budget) e del sistema delle cosiddette franchigie.
Un argomento, questo, che abbiamo già avuto modo di affrontare. Ad esempio analizzando la proposta di “fair play” sui salari dei giocatori, avanzata dalla lega cinese (LPL) di League of Legends. O ancora con l’iniziativa targata Ubisoft per una lega sostenibile per Rainbow 6, da realizzare attraverso la condivisione di determinati profitti tra publisher e team pro, sempre più in difficoltà nel sostenere i costi del sistema professionistico. E infine, tutte le volte (e sono sempre più numerose) in cui arrivano notizie di acquisizioni/fusioni tra team e dilazione di pagamenti per i team che vogliono conservare la propria franchigia.
L’ultima news in questa direzione è di qualche giorno fa, quando Riot Games ha annunciato la cancellazione della Oceanic Pro League, la lega competitiva di League of Legends che riguarda soprattutto Australia e Nuova Zelanda. Il publisher ha affidato la notizia ad un tweet “firmato” Malte Wegener e Tom Martella, rispettivamente Managing Director of North America & Oceania e Global Esports Director di Riot Games, nel quale si legge, oltre allo smantellamento della lega, la possibile soluzione:
“Rimaniamo concentrati nel supportare i nostri giocatori professionisti nella regione, con un percorso che possa consentire alle loro carriere di proseguire. Per la stagione 2021 abbiamo deciso di aggiungere la regione Oceania alla scena competitiva dell’LCS in modo che i giocatori non siano più considerati import nei roster LCS. Una decisione che aprirà nuove opportunità sia per i giocatori oceanici che per le squadre nordamericane”.
In sostanza, i giocatori della Oceanic Pro League saranno ammessi nella Lega Nordamericana come local player, facilitandone quindi lo sbarco professionale soprattutto negli States e in Canada. Riot Games ha anche annunciato che saranno ugualmente realizzati i tornei di qualificazione agli eventi internazionali per la regione oceanica, in modo tale da permettere ad Australia e Nuova Zelanda di inviare i propri giocatori alle manifestazioni più importanti.
La sensazione, però, è che si tratti di compensazioni parziali e limitate se si guarda all’intero ecosistema esportivo di Australia e Nuova Zelanda, che si vede così privato di una struttura continentale adeguata. A questo va aggiunta la contemporanea chiusura degli uffici di Riot Games a Sydney, con conseguente congelamento di svariati posti di lavoro.
A dire la verità, entrambe queste soluzioni danno l’idea di cerotti con i quali bloccare un’emorragia, quella di una lega con difficoltà economiche e isolata geograficamente rispetto alle altre. La OLP ha da tempo scarse opportunità di crescita in termini numerici, nonostante in questi ultimi anni la qualità delle squadre e dei giocatori sia migliorata ampiamente (basti pensare al team australiano Legacy Esports).
E quando i numeri non tornano, le aziende sono costrette a tagliare. Una regola che il mondo professionistico degli eSports deve accettare, soprattutto quello delle franchigie, così strettamente legato ai publisher.
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