Il 27 luglio di 24 anni fa un attentato scosse le Olimpiadi di Atlanta. Ci furono 1 morto e 111 feriti. L’ingiusta accusa di Richard Jewell. Il colpevole fu Eric Robert Rudolph
Iniziate il 19 luglio 1996, i Giochi della XXVI Olimpiade di Atlanta, dovevano passare alla storia perché per la prima volta, si presentarono tredici nazioni resesi da poco indipendenti dalla Unione Repubbliche Socialiste Sovietiche: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Russia, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina, Uzbekistan. Purtroppo, però, le Olimpiadi disputate in terra americana sono salite sulla ribalta per ben altro motivo. Era la tarda sera di venerdì 27 luglio migliaia di persone si erano riunite al parco per un concerto gratuito del gruppo rock “Jack Mack and the Heart Attack”. Eric Robert Rudolph, prima di allontanarsi, aveva posizionato vicino a uno degli impianti di amplificazione uno zaino che conteneva una bomba artigianale con bulloni e chiodi. La presenza della bomba fu comunicata alla polizia diciotto minuti prima dell’esplosione con una telefonata anonima al 911 fatta, secondo le prime dichiarazioni ufficiali della polizia, da un «uomo di razza bianca che parlava senza alcun accento particolare». Ancora prima, però, lo zaino era stato scoperto da un addetto del servizio di sicurezza privata del parco di turno quella sera, Richard Jewell che stava andando in bagno durante una pausa, e aveva notato lo zaino abbandonato perché si era fermato per richiamare un gruppo di ubriachi stava sporcando l’area con delle lattine di birra. Con le altre guardie aveva anche cominciato a far evacuare la zona riuscendo a far allontanare la maggior parte delle persone: dopo qualche minuto, da poco passata la mezzanotte, la bomba esplose uccidendo una donna di 44 anni, Alice Hawthorne, e ferendo altre 111 persone. Un’altra persona, il cameraman turco Melih Uzunyol, morì di infarto poco dopo l’esplosione. L’allora presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, durante una conferenza stampa, denunciò l’attacco come un «atto di terrorismo» e promise di fare tutto il possibile per rintracciare e punire i responsabili. Nonostante quello che accadde, il direttore generale del Comitato Olimpico Internazionale decise che i Giochi sarebbero proseguiti come da programma: prima di ogni evento venne osservato un minuto di silenzio e le bandiere vennero issate a mezz’asta. Le indagini sull’attentato vennero ufficialmente assunte dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e dall’FBI. Quattro giorni dopo l’esplosione Richard Jewell, inizialmente considerato come un eroe perché aveva cominciato ad evacuare la zona dove era stata trovata la bomba, venne indicato come “persona di interesse” da parte dell’FBI, ma non venne arrestato. Non essendoci altre piste i media si concentrarono in modo molto aggressivo su di lui, facendo illazioni sul suo conto, indagando sulla sua vita, indicandolo come presunto colpevole e pubblicando anche il suo indirizzo di casa che per giorni venne assediata da decine di giornalisti e fotografi. Fu uno dei cosiddetti “processi mediatici” più conosciuti degli Stati Uniti. Circa tre mesi dopo Jewell venne escluso definitivamente dalle indagini e citò per diffamazione diverse testate giornalistiche e televisioni, compresa la CNN. La sua storia è stata raccontata in un lungo e documentato articolo di Vanity Fair. A quel punto, l’FBI ammise però di non avere altri sospetti e piste, e l’indagine fece ben pochi progressi fino all’inizio del 1997, quando ci furono nuovi attentati: in un locale per lesbiche e in una clinica per aborti di Atlanta (gennaio 1997) e in una clinica per aborti a Birmingham, Alabama (gennaio 1998). Quest’ultimo attentato causò un morto e un ferito grave. Rudolph venne identificato come responsabile della bomba di Birmingham il febbraio successivo, venne inserito nella lista dei ricercati dell’FBI e fu stabilita una taglia sulla sua cattura. Il 14 ottobre del 1998, il Dipartimento di Giustizia lo indicò formalmente come il principale sospettato di tutte e quattro le esplosioni di quegli anni in Georgia e Alabama, ma per più di cinque anni non riuscì ad avere notizie su di lui: Rudolph divenne latitante sopravvivendo nascosto sui Monti Appalachi, forse aiutato da militanti ultra cristiani locali. Venne arrestato solamente il 31 maggio del 2003 a Murphy, North Carolina, da un poliziotto della zona vicino a un supermercato dove si sospettava fosse in corso un furto: Rudolph non oppose resistenza alla cattura e il giorno dopo venne consegnato all’FBI. L’8 aprile del 2005, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti annunciò che Rudolph aveva confessato il suo ruolo in tutti e quattro gli attentati, ripeté la confessione in tribunale e fece un comunicato spiegando le proprie motivazioni: parlò della volontà di colpire «gli ideali del socialismo globale» rappresentati dalle Olimpiadi, promossi dal «regime di Washington» e «perfettamente espressi nella canzone Imagine di John Lennon, inno dei giochi del 1996». Affermò che il suo obiettivo era «confondere, far arrabbiare e imbarazzare il governo di Washington agli occhi del mondo per il suo abominevole ruolo nella somministrazione dell’aborto su richiesta» e che la sua intenzione era «far cancellare i Giochi, o almeno creare uno stato di insicurezza per svuotare le strade intorno all’evento, per colpire i grandi capitali investiti». Il 18 luglio venne condannato a due ergastoli senza possibilità di condizionale e successivamente ad altri tre ergastoli per gli altri attentati: venne inviato al penitenziario di massima sicurezza di Florence, in Colorado.