Compie oggi 45 anni il centrocampista olandese, protagonista di una carriera straordinaria con la maglia del Milan dopo un paio d’anni all’Inter.
Clarence Seedorf nasce a Paramaribo il 1 aprile 1976, neanche un anno dopo l’indipendenza di questo Paese da mezzo milione di abitanti nel Sud America, fino ad allora sotto la corona olandese. Il cognome del futuro centrocampista è particolare, derivante da quello del nonno, il quale, schiavo, fu liberato dal padrone tedesco. Clarence inizia la sua carriera giovanissimo, nell’Ajax, per diventare quello che oggi è considerato da tanti come uno dei migliori centrocampisti della sua generazione, uno dei giocatori più decorati di sempre. La sua voglia di arrivare in alto emerge prestissimo. In lui convive la mentalità creativa con quella difensiva, difendeva o attaccava seconda delle necessità e ha giocato ogni ruolo, dal terzino al portiere, per questo si definiva il ragno che nella ragnatela ha tutto sotto controllo. Quando giochi in posizioni diverse sai cosa richiede quel ruolo. Sulla scena europea debutta a sedici anni con l’Ajax, spinto da Louis van Gaal Vitória Guimarães, come terzino destro. A livello internazionale, ha rappresentato l’Olanda in 87 occasioni e ha partecipato a tre Campionati Europei di calcio UEFA (1996, 2000, 2004) e alla Coppa del Mondo FIFA 1998, raggiungendo le semifinali di questi ultimi tre tornei, inoltre, è noto per essere attualmente l’unico ad aver vinto la UEFA Champions League con tre differenti squadre (Ajax 1995, Real Madrid 1998 e Milan 2003 – 2007). “Emozioni, ricordi – più belli che brutti, per fortuna. Grandi momenti di divertimento, grande calcio, serate indimenticabili. Penso che sia tutto qui: esperienza, emozioni e quel tocco speciale che la Champions porta dentro e fuori dal campo”. Ha detto una volta in merito alla competizione. Seedorf racconta come il calcio richieda forza, attitudine, ma soprattutto e tanto equilibrio e di quel periodo ricorda con amarezza come tanti ragazzi che ha incontrato si siano persi a causa delle pressioni che non sono affatto facili da gestire.
Trascorse le prime due stagioni e mezzo all’Inter, in anni non facili per il club nerazzurro. Era uno dei migliori della gestione Lippi, il suo arrivo a gennaio 2000 era stato salutato con grande entusiasmo dai supporter interisti, ma il tecnico viareggino non durò e si trovò bloccato in un anno di transizione con Tardelli in panchina. Poco affine allo schieramento di Cuper, con cui sfiorò lo Scudetto nel 2002, venne ceduto lo stesso anno in rossonero in cambio di Francesco Coco, uno scambio tuttora ricordato. Nei dieci anni al Milan, con la cui maglia ha collezionato 432 presenze, ha vinto qualsiasi cosa, protagonista assoluto del centrocampo di Ancelotti. Spiccano chiaramente i due Scudetti, del 2004 e del 2011, oltre alle due Champions League del 2003 e del 2007, che hanno portato a sette le Coppe dei Campioni del Diavolo. Ha appeso al chiodo le sue scarpe fin troppo consumate e ha cambiato posizione in campo. Nel 2014, anno in cui si trovò a sostituire Massimiliano Allegri al Milan, ha allenato i rossoneri nella seconda parte del campionato 2013-2014, per poi accettare l’offerta di Shenzhen e Deportivo La Coruna. Dai suoi occhi, pieni di orgoglio per i traguardi raggiunti, traspira però un velo di rammarico. Ultimamente, infatti, Seedorf ha sollevato davanti alle telecamere internazionali una questione di grande importanza e attualità. L’ex centrocampista non crede che in Italia viga un sistema meritocratico, né che le opportunità siano pari per tutti. “Ho giocato 12 anni in Italia: dopo il Milan, nonostante abbia fatto un ottimo lavoro, non ho ricevuto telefonate. L’Olanda è il mio paese, ancora una volta, zero chiamate. Quali sono i criteri di selezione? Perché i grandi campioni non hanno chance in Europa dove hanno scritto pagine di storia del calcio? Perché Vieira deve andare a New York e Henry in Canada? Per gli allenatori non ci sono pari opportunità: se guardiamo i numeri, non ci sono neri nelle posizioni di maggior potere nel calcio”. Seedorf chiede di aprire gli occhi. A tutti, “soprattutto a quelli che possono cambiare le cose, i migliori risultati possono derivare dalla diversità.”
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