Sapete come Gigi Radice riusciva ad emergere dall’empasse dell’Alzheimer? Riguardando vecchie foto del Torino. Del suo Torino. Lo raccontò su figlio Ruggero, in un’intervista rilasciata a Il Giornale, in cui parò per la prima volta della malattia di suo padre.
Fu un fulmine a ciel sereno: a un tratto, mister Gigi, quell’uomo tutto d’un pezzo, signore del calcio, era diventato un mortale come tutti noi. Non più consegnato all’eternità del ricordo, a quelle domeniche in cui riempiva gli schermi e i discorsi di tutti. Gigi Radice, sempre pronunciato d’un solo fiato, era sceso dalla nuvoletta dei pensieri sporadici e ci aveva dato un filo d’apprensione.
Se ne andò a Torino, a inizio dicembre del 2018. Col sorriso sul volto e la mano nella mano della sua Nerina, accolto dall’affetto delle figlie Betty e Cristina, oltre a Ruggero che aveva ripercorso parzialmente le sue orme. “Non sapeva cucinare, ma è stato un bravo marito e un bravo padre”, ha sempre ricordato – col sorriso – sua moglie.
Omettendo quanto in realtà la sua dolce metà sia stato tanto di più, a partire da quel nomignolo che un po’ lo urtava, un po’ lo rendeva orgoglioso. Il “Sergente di Ferro”.
Un grande Sergente
Sergente pure in campo, sia chiaro. Ben prima della panchina. Aveva iniziato al Milan, Radice. Già nel 1953, venne prelevato allora diciottenne dai rossoneri: serviva un centrocampista di gamba e di corsa, e lui era abituato a rincorrere pure la sua ombra.
Era un asset perfetto, eppure qualcosa andò storto: non riusciva a imporre il suo gioco, forse scottato da quel brusco passaggio ai piani alti del calcio. La scelta fu consapevole e dettata da raziocinio, lo portò in Serie B. Era Trieste, poi fu Padova. Soprattutto, fu Nereo Rocco: il Paron che lo ama alla follia, in quella squadra tutta corsa, calci e catenaccio.
Rocco va al Milan e il destino qui tira fuori la carta delle seconde occasioni. Radice stavolta non è più un ragazzino: è un uomo e ha la fiducia quasi incondizionata di quel burbero di Rocco. Poi, la squadra è piena zeppa di stelle. C’è Cesare Maldini e c’è Giovanni Trapattoni. Ghiggia e Sani, in attacco José Altafini. Radice è lì non per farsi bello, ma per spezzare il fiato e randellare palloni e avversari. 28 presenze nel suo primo anno: un gol, al Catania. Sembra un sogno e forse lo è: si risveglia nel ’63, quando subirà un infortunio pesantissimo al ginocchio. Che segnerà drasticamente la sua carriera.
Passano appena 3 anni da quell’incidente, e Gigi deve appendere gli scarpini al chiodo. Non senza dolore. Anzi: con estrema sofferenza, la stessa che gli darà l’idea di iniziare dall’altro lato. Perché per fare la differenza, se non hai le gambe, c’è pur sempre la testa.
E la conoscenza del gioco, che a Milano gli hanno sempre riconosciuto. Ecco perché, poco più in là e cioè a Monza, Radice trova terreno fertile. Per imparare, sbagliando e correggendo. Di sicuro, amando con passione la sua nuova missione.
In panchina
È un passo indietro di categoria, è uno in avanti nelle ambizioni e nella conoscenza del mondo del pallone. Parte dalla Brianza e dalla C, arrivando immediatamente nella categoria successiva. Poi Treviso e ancora Monza, quindi la chiamata del Cesena: inizia un girovagare pazzesco e un’amicizia sincera con Dino Manuzzi, che vuole la A e sceglie il Sergente per portargliela quanto prima. Radice getta le basi e arriva sesto, in estate prende Mantovani e scatena Braida. Cavalcata perfetta e Serie A meritatissima.
Aveva davanti a sé due scelte: affrontare tutto con il Cesena o accettare la proposta della Fiorentina. Il Viola è un colore particolare e Gigi non è un uomo banale.
In quella squadra trovò un tesoro e provò a farlo conoscere all’Italia intera: era Giancarlo Antognoni, autore di notti indimenticabili e sempre con la stessa maglia. Come va a finire? Che stoppa il Milan, che batte la Juve di Vycpalek e l’Inter di Herrera. La Lazio, vincitrice dello scudetto, non riuscirà mai a battere quella Fiorentina: due pareggi. Al ritorno però paga sconfitte ingenue e gruppo non esattamente contento: sarà sesto posto e niente Europa. Goccia di un vaso già traboccante.
È un’estate ad aspettare, e la chiamata è del Cagliari che si disfa della delusione Chiappella. In Sardegna arriva decimo e salva tutti, Riva compreso. Ma la storia d’amore sta per sbocciare: è in arrivo la chiamata del Torino. Che sarà la più grande compagna di vita. Dopo Nerina, s’intende.
Gigi e il Toro
Orfeo Pianelli, presidente del Torino della metà degli anni Settanta, vuole ricreare lo spirito del Mito e sente di aver bisogno di un signore della panchina: tutto calcio e incazzature.
Un uomo pure crudo, ma terribilmente vero. Radice raccoglie una squadra che riparte da un sesto posto, ma che ha perso bandiere come Aldo Agroppi e Ferrini, con quest’ultimo che rimarrà come collaboratore.
Oh, materiale ce n’è, a partire da Paolo Pulici, chiudendo con Ciccio Graziani. Non è ancora il massimo splendore del mitico duo: siamo agli albori. E tanto basta.
Mister Gigi prova a fare il suo gioco: organizzazione, pressing alto, mediana a tre. Davanti affida tutto al talento sconfinato del duo; ogni tanto li richiama all’ordine, ma l’empatia è immediata. Ritiro al giovedì e risate costanti, un gruppo che si plasma sulla sua semi serietà e sull’ironia pungente del condottiero. Inizio difficile, poi i punti arrivano copiosi. Tanto copiosi. Troppo copiosi, e questo per gli avversari.
Dopo le vittorie su Inter e Napoli, Radice rincorre e supera la Juve del suo amico Trapattoni il 7 dicembre. Il Toro non si ferma, non può farlo: batte pure il Milan e resta a ruota fino alla stracittadina di ritorno. Decisiva. E triste. Il motivo? Castellini, il portiere, viene colpito da un petardo al ritorno negli spogliatoi: non rientrerà più in campo e i granata vinceranno quella sfida a tavolino (dopo averla vinta sul campo).
È il 16 maggio quando, Torino-Cesena (sfida del destino, ovviamente) decreta lo scudetto di Radice e dei suoi ragazzi: basta un pareggio, con Pulici che supera la difesa romagnola.
A Perugia, l’ex Agroppi blocca la Juventus. Favola incredibile, che il Comunale raccoglie nella sua piena essenza, impazzendo di gioia e portando in trionfo una città con il ricordo di Superga ancora vivo, ancora doloroso, per sempre duro da digerire.
L’incidente
È sul tetto d’Italia e ha intenzione di restarci, Radice. Con il popolo granata ai suoi piedi, arriverà un secondo posto e poi un terzo. Fino alla tragedia: Giorgio Ferrini se ne va, quasi all’improvviso. E nell’aprile del ’79, un incidente si porta via l’amico Paolo Barison, e Gigi era al suo fianco su quella maledetta Fiat Coupé in direzione Genova. Radice si salva per miracolo, per Paolo non c’è niente da fare.
A Torino c’era invece ancora tanto da fare, ma c’è chi non sopportava quella fama da unico e solo Sergente, idolo dei tifosi che volevano lui e nessun altro. A prescindere dalla guida societaria. “Pensavo ormai di essere in famiglia, ci dicevamo tutti insieme che anche le eventuali intemperie le avremmo superate senza traumi, discutendone serenamente. Poi ai primi accenni di burrasca mi cacciano via e mi fanno sentire un allenatore qualunque“, il suo sfogo. Cinque anni spezzati così. Senza senso.
Arriverà la Roma ma non sarà la stessa cosa. Gira per Bologna e il Milan, quello poco prima dell’arrivo di Berlusconi. Nel 1984 tornerà al Torino, ma aveva altri giocatori e altri obiettivi. Mise in fila ancora cinque stagioni, brillando con un secondo posto e poco più. Nel 1989, la chiamata della Roma ed è un’altra storia meravigliosa, d’amore puro. Il 18 marzo del 1989, Radice stende la Lazio nel derby grazie a Voeller. La Sud apprezza: “Un uomo solo al comando, con un undici leoni al suo fianco, la sua maglia è giallorossa, il suo nome Gigi Radice”.
Sarà sesto posto. E sarà il pezzo finale di un assolo unico e irripetibile. Il Sergente tornò a Firenze e ripercorse le sue orme, con Cagliari e Genoa a chiudere, salvo l’ultima esperienza al Monza, che riportò pure in Serie B.
Arrivò la malattia e fu un calcio diverso. Arrivò e si portò via pure quei ricordi. Da vent’anni è diventato nostro dovere ricordare a tutti chi è stato Gigi Radice.