È celebre il detto secondo cui «l’abito non fa il monaco». A volte, però, può darsi che lo faccia.
Come in occasione di USA 94, l’edizione mondiale nostalgica per eccellenza e nella quale il Messico, assente a Italia 90 per aver schierato alcuni over 20 all’ultimo mondiale under 20, decise di affidare il «design» della maglia da portiere proprio al portiere nazionale di quella edizione: Jorge Campos.
Perché è vero che normalmente l’abito non fa il monaco, ma lo è altrettanto che, sempre di norma, il monaco l’abito non se lo fa da sé.
Giocatore multicolore
Una maglia – e una divisa – che verrebbe oggi definita imbarazzante, è diventata a distanza di più di 26 anni un’icona del calcio mondiale. La follia venne accolta volentieri da Umbro, che vedeva nella strategia di marketing della nazionale messicana un’occasione per sperimentare – in anticipo sui tempi – le self-made shirt.
Texture stravaganti, colori sgargianti. Così possiamo riassumere quelle buffe ma leggendarie casacche “ideate” dal numero 1 messicano. Il verde, il viola, il giallo, l’arancione, il fucsia, si fondono in una tempesta di colori che travolge l’occhio dello spettatore ma, probabilmente, anche quello dei giocatori avversari – anche per questo semplice, magari banale, ma serio motivo, sarebbe difficile pensare alla riproposizione di questa divisa da gioco ai giorni nostri.
Che Jorge Campos fosse tutto meno che un ragazzo misurato, comunque, non lo dimostra il design – pure eccentrico e rivelatore – di una divisa, ma la storia personale di questo incredibile calciatore.
Il verde, il viola, soprattutto il giallo e il fucsia, ma anche l’arancione, Campos li vede tutti i giorni da ragazzino, crescendo personalmente e calcisticamente ad Acapulco, dove nasce nel 1966.
In quegli anni, la meta è prevalentemente preda di turisti yankee con le tasche piene di verdoni. L’incentivo all’esotico è dato anche dalla presenza costante di due star come Elizabeth Taylor e Frank Sinatra.
Ad Acapulco, d’estate soprattutto – quindi tutto l’anno –, è il surf a prendersi la scena. Anche Jorge è un patito della disciplina, e le movenze tra i pali sembrano ricalcare quelle del surfing, con grande sforzo muscolare dei legamenti, postura arcuata spinta in avanti e velocità nel cambio di direzione.
D’altra parte, come poteva diventare portiere della nazionale uno alto a malapena 170 centimetri? Con la Nazionale messicana Campos porterà a casa, invece, 130 presenze internazionali, a cui vanno aggiunte due Gold Cup e due partecipazioni mondiali (nel ’94, come ricordato, e nel ’98). Campos è però ricordato per un’altra curiosa ma emblematica caratteristica: l’esordio nel ruolo di attaccante.
Portiere Volante
È il 1988 e Campos va a giocare per la prima squadra professionistica della sua carriera, il Club Universidad Nacional, meglio conosciuto come Pumas UNAM o semplicemente Pumas.
Con questa maglia, Campos esordisce sì, ma non come portiere. Da attaccante, egli segna addirittura 14 gol, dimostrando non solo di avere uno spiccato senso del gol, ma una tecnica e una classe sopraffini. Segna prevalentemente al volo, spesso in cucchiaio, di destro e sinistro indifferentemente. Tutto sembra parlare, per l’ometto di Acapulco, il linguaggio della rete. Ma presto si troverà a difenderla.
Al Pumas conoscono le abilità tentacolari di Jorge, ma le sue abilità di goleador mettono a tacere strane rivoluzioni. Eppure c’è chi si accorge di un particolare interessante: non solo Jorge è bravo a segnare, non solo è bravo a parare, ma ha coraggio – sia nelle uscite che nell’impostazione, grazie ad una tecnica che madre natura gli ha fornito ancor prima di nascere. Ecco allora che Campos diventa una sorta di Manuel Neuer ante litteram, in spagnolo arquero líberos.
La carriera di Campos inizia così, quasi per caso. Come attaccante Jorge è bello da vedere, soprattutto è efficace.
Ma tra i pali è un fenomeno in grado di cambiare la storia del ruolo – non a caso la Fifa lo inserisce quale terzo miglior portiere nel 1994. Col Messico, sia in America che in Francia, il cammino è per sua sfortuna più breve del previsto. Due ottavi di finale, due sconfitte prima di accedere ai quarti (rispettivamente contro Bulgaria ai rigori e contro Germania per 2-0).
Campos è soprattutto un’icona. Non solo di stile. Dopo essersi trasferito in MLS nel 1996 – firmando per i Los Angeles Galaxy, poi per i Chicago Fire –, parteciperà a quella che ancora oggi rimane una delle pubblicità più belle mai prodotte per il mondo del calcio: parliamo dello spot Nike ‘Good vs Evil’ (Bene vs Male), in cui Campos figura insieme ad alcune leggende dello sport, come Cantona, Maldini, Kluivert, Figo.
Solitudine e colori
Ascoltiamo un momento il grande Eduardo Galeano, che così parla del portiere:
Non sappiamo se qui Galeano pensi ad un portiere in particolare, ma il richiamo finale ci indicherebbe Campos: una (anacronistica) fatalità che ci fa sorridere.
Il calcio, con la sua ragnatela invisibile e i suoi giochi sotterranei, visti e non visti, in fondo non è che la metafora dell’eccentricità del portiere. Un uomo solo che, solitario, deve gestire il peso dei riflettori sulla propria figura. Se un attaccante sbaglia un gol, ma ne segna subito dopo un altro, nessuno si ricorderà del gol sbagliato.
Se un portiere fa tre miracoli ma prende un gol, nessuno si ricorderà dei miracoli. È la vecchia storia dei portieri pazzi. È una storia vera come la maglia di Campos: distopica, confusionaria, gioiosa.
Campos tornerà in Messico nel 1999 per unirsi nuovamente al club che lo ha lanciato da ragazzo, il Pumas. Passerà poi al Tigres, infine al Puebla dove si ritirerà nel 2004.
La sua esistenza, sospesa tra i pali e la rete, è sempre stata in equilibrio tra la tristezza e la gioia, l’eleganza e la follia. Vedi Campos ma pensi subito ai versi di Umberto Saba, fugacemente scritti in “Goal”: