Nella lingua italiana, “prendere un palo” è un’espressione che può essere usata in vari contesti (amoroso/sentimentale, economico, lavorativo); in ogni caso, sta a significare una cocente delusione, un affronto del destino nei nostri confronti, un «ostacolo» che impedisce la buona riuscita della nostra operazione, qualunque essa sia.
In francese funziona più o meno così, ma la derivazione dell’espressione francese “poteaux carrés” è prettamente calcistica.
Mentre in italiano è infatti ipotizzabile una derivazione differente, è indubbio l’evento sportivo dal quale prende le mosse questa espressione, che possiamo tradurre come “pali quadrati”.
Hampden Park, il teatro della leggenda
Hampden Park, Glasgow, 12 maggio 1976.
Il Saint-Etienne è pronto a prendersi un sogno che per i bavaresi del Bayern Monaco è niente altro che una formalità. I tedeschi sono infatti alla terza finale consecutiva, e tra le fila dei Campioni d’Europa in carica figurano nomi pesantissimi: Maier, Beckenbauer, Rumenigge, Gerd Müller, Uli Hoeneß, per non citare che i più rappresentativi.
Eppure i francesi hanno dalla loro, oltre alla Cabala, anche una discreta rosa, frutto di programmazione e casualità (mai tanto talento verrà a ripresentarsi sulle colline de Les Verts): Curkovic tra i pali, decisivo nel corso della competizione, Santini, Patrick ed Hervé Revelli, Larqué, ma anche e soprattutto Rochateau, il grande assente di quella serata.
Come detto la finale si gioca ad Hampden Park, e questo non è un particolare secondario nella nostra storia. Anzitutto perché lo stadio di Glasgow ha sempre avuto un rapporto strano con le finali di Coppa Campioni/Champions League, con la Germania sempre nel destino.
Si inizia con la finale del 1960, a tutt’oggi la più vista dal vivo con i suoi 127.000 spettatori: l’Eintracht di Francoforte viene sepolto di reti dal Real Madrid alla sua ultima coppa della serie iniziale di cinque trionfi. I blancos di Puskas e Di Stefano infieriscono fino al 7-3 finale.
Passando a 42 anni dopo Hampden è anche il teatro della sorpresa Bayer Leverkusen che nella sua annata ad un passo dalla gloria (quella del Neverkusen per intendersi) affronta fieramente di nuovo il Real Madrid: servirà un colpo di dadaismo calcistico di Zidane per permettere ai galacticos di alzare la Champions con uno dei quei gol che basta chiudere gli occhi per rivederlo.
In mezzo questa finale, rimasta nella storia proprio per il secondo motivo per cui Hampden è così fondamentale. Lo stadio teatro delle gesta del glorioso Queen’s Park (la più antica squadra di Scozia fondata nel 1867) e di alcuni accesi Old Firm è ancora uno dei pochi che nel 1976 adotta i pali delle porte quadrati.
Proprio quadrati, come quelli che siamo abituati a vedere nelle immagini di repertorio del calcio anni 50′ e 60′. Non sarà un particolare da poco. Sarà invece una partita dove geometria e fisica risulteranno decisive.
La finale dei pali quadrati
Non solo il Saint-Etienne crede nel successo finale, ma si presenta all’appuntamento conclusivo della stagione calcistica dopo aver meritato questo prestigioso palcoscenico.
Rangers, Dinamo Kiev (la favorita dell’epoca insieme al Bayern Monaco) e PSV Eindhoven le vittime della straordinaria marcia dei verdi. Il Bayern ha dalla sua l’esperienza di chi è abituato a giocarsi certe partite, ma il Saint-Etiènne quell’anno arriva anche da campione di Francia (cosa che accade da tre stagioni consecutive) e questo non è indifferente per la fiducia e l’autostima de Les Verts.
Bisogna pur dire che quel Saint-Etiènne è davvero una squadra interessante e che pratica un bel calcio: formazione tecnica e votata all’attacco che purtroppo all’atto finale della competizione non può esporre il suo gioiello più luccicante, quel Dominique Rocheteau esploso proprio in quella stagione: una freccia verde svolazzante per tutta la fascia destra, capace di mettere a referto 11 gol in stagione. Sarebbe proprio stato un problema per i solidi difensori tedeschi arginare la giovane ala. Sfortuna insomma, ma che non si esaurisce qui.
Peccato che Hampden Park abbia i pali quadrati. Peccato davvero. Chissà cosa staremmo raccontando adesso, se al 25′ (Bathenay) e al 40′ (Santini), al posto della traversa e del palo quadrati ci fossero stati pali tondi.
Prendere un palo è già un qualcosa che non possiamo inserire nel campo delle abilità: la differenza tra un gol e un palo talvolta è davvero minima: bastano pochi grammi di equilibrio nella postura, un’allacciatura degli scarpini, un filo d’erba o un capello sulla fronte a deviare un pallone e a fare la differenza tra la gioia e la disperazione.
Per il Saint Etiènne la beffa è doppia: quella traversa colpita da Bathenay con una sventola fuori e da Santini con una zuccata viene colpita nella sua parte medio bassa, cosa che significherebbe la caduta della sfera verso la rete difesa da Sepp Maier.
Invece quel legno è quello che in geometria potremmo chiamare Cuboide, cioè un blocco composto da soli rettangoli paralleli tra loro. La sfera non batte quindi su una superficie che ne asseconda la traiettoria, ma al contrario viene letteralmente respinta dal taglio dello spigolo, che la fa schizzare verso il centro dell’area dove i corazzieri tedeschi hanno buon gioco nel liberare.
Contro una squadra spigolosa come il Bayern, sarà quindi uno spigolo della storia a respingere i sogni del Saint-Etiènne. Dopo questo episodio la UEFA capirà che i pali devono essere uguali dovunque e imporrà i più moderni, e meno pericolosi, pali arrotondati.
Peccato di nuovo, perché il Saint-Etienne merita, ma il fato – e i poteaux carrés – gli schiaffa in faccia l’alloro dei campioni, donandolo ai bavaresi capaci di sfruttare l’unica vera occasione della partita con la punizione di Roth a metà secondo tempo.
C’è però un lieto fine.
Ai bavaresi va la Coppa Campioni, la terza consecutiva come il grande Ajax, ma i pali andranno proprio al Saint-Etienne.
Quando Hampden Park cambierà la propria veste qualche anno dopo, infatti, viste le nuove regole UEFA, i pali verranno esposti nel museo del Glasgow Rangers per poi essere acquistati proprio dalla società francese, che oggi li espone nel proprio museo.
Perché non vince solo chi alza la coppa, ma anche chi sa ridere in faccia ai colpi del destino.