Un’emozione non si può raccontare, si può solo vivere. Le tre stagioni di Paul Gascoigne alla Lazio rimangono una indelebile pagina di storia biancoceleste, ma i fiumi di inchiostro scritti a riguardo non sono comunque in grado di dare la misura di ciò che, a voler essere precisi, è smisurato. Cosa ha fatto di così grandioso Paul Gascoigne per entrare nel cuore dei tifosi laziali?
Di grandioso, niente. Ma la grandiosità di questo straordinario calciatore dall’animo leggero, gentleman d’Oltremanica simpatico come un italiano e pazzo come un russo, risiede proprio nell’aver reso grande un nugolo di nuvole. Le nuvole non si pesano, non hanno massa. Non puoi contarle, perché amano il vento. Non hanno consistenza, eppure da esse, quand’hanno in animo d’esser tristi, possono cadere lacrime a fiotti. Considerarle men che nulla equivale a cacciarsi nei guai: fulmini e tempeste si abbatteranno sulla terra.
Lo stesso vale per Paul Gazza Gascoigne. Dopo un ottimo avvio di carriera in Inghilterra, sia col Tottenham che con la maglia della Nazionale Inglese – di cui rimarrà vivido il ricordo delle lacrime ad Italia 90, a proposito di nubi, fulmini e ciel sereno –, Gascoigne si trasferisce, ancora nel fiore dei propri anni, alla Lazio di Cragnotti, che si innamora di lui guardandolo in azione nel Mondiale ospitato dal Belpaese – ricordiamoci che la Premier all’epoca ancora non veniva trasmessa sul nostro territorio nazionale. Cragnotti lo paga la miseria di 9 milioni di sterline.
Idolo Gazza
Il suo arrivo a Fiumicino nell’estate del 1992 è uno di quegli eventi memorabili che, come si diceva in apertura di articolo, viverli fa sembrare sciocco il raccontarli. Cappellino degli Irriducibili, rito obbligatorio, duemila persone ad accoglierlo, sorrisi e canzoni, ma soprattutto una leggerezza nei gesti e nell’atteggiamento che lo fanno entrare fin da subito in sintonia con la gente laziale. Gli urlano qualcosa, gli cantano un paio di cori, i tifosi, e lui risponde sorridendo; gli occhi non si vedono, coperti come sono da un paio di occhiali perfettamente futili – in pieno stile Gazza – all’interno dell’aeroporto tutt’altro che soleggiato di Fiumicino. Si intravedono le guance, però, tutte rosse di emozione e di imbarazzo. Gascoigne non si aspettava un’accoglienza così. Il suo cuore già batte forte per una storia che non è ancora iniziata.
L’arrivo al campo di allenamento è leggendario. Ma per un personaggio come Gazza la leggenda vale più della verità fattuale. E allora eccovi il resoconto.
L’allora allenatore della Lazio è Dino Zoff, uomo d’altri tempi, sempre serio, poco sorridente, poco scherzoso; in una parola, l’esatto contrario di Paul Gascoigne. Chissà come si troveranno i due a lavorare insieme, si chiedono in molti. E sbagliano ad avanzare dubbi. Gascoigne è impossibile amarlo, perché è lui per primo che ama tutti.
«Mi avevano detto che lei mi cercava, mister, così sono corso giù di fretta, ma non ho fatto in tempo a vestirmi».
Paul Gascoigne
Gascoigne si presenta senza niente addosso al campo di allenamento. La reazione di Zoff è stupefatta e incredula. La sua espressione la lasciamo alla vostra immaginazione. I due comunque si trovano subito a meraviglia.
Gascoigne è benvoluto da tutti. In particolare, fa amicizia con Luigi Corino. Non certo un fuoriclasse, quest’ultimo. Al contrario, Gigi ama i tackle, fa del contrasto e della cattiveria sportiva le sue armi principali (ed uniche). Il suo cuore è la traduzione del suo calcio, risoluto ma onesto. Gascoigne lo apprezza enormemente. Apprezza in lui quella genuinità che è difficile trovare in giro. L’aneddoto di Corino merita di essere raccontato per intero.
«Una volta mi disse di passarlo a prendere a casa, perché lui a Roma non guidava, girava con l’autista. Quel giorno però era a piedi. […] Gli dico di sbrigarsi, perché Zoff era inflessibile e se arrivavi in ritardo le multe fioccavano. Lui mi offre una birra, mi accende la televisione e mi fa mettere seduto in salone. Dopo dieci minuti, niente. Lo chiamo, salgo a cercarlo, niente. Era sparito. Esco e mi rendo conto che mi aveva rubato la macchina ed era andato al campo di allenamento, lasciandomi a piedi. Chiamo di corsa un taxi e quando arrivo in ritardo clamoroso, a Tor di Quinto, lui si rivolge a Zoff e comincia a urlare: ‘Multa Mister! Multa, multa!’, con tutti i compagni in coro, piegati dalle risate perché sapevano dello scherzo».
Gigi Corino su Gascoigne
Gazza croce, Gazza delizia
Ma quando si trattava di giocare, poi, Gascoigne ricordava a tutti che dietro quella buffonaggine non c’era un giocatore mediocre ma una testa troppo sensibile per resistere ai colpi della Fortuna.
Paul, al posto delle gambe, aveva due assi di Bastone. Al posto dei piedi, due Spade affilate. Al posto del busto una Coppa sbilenca e al posto del capo Denara. Il suo gioco era quello delle carte napoletane: imprevedibile, assolutamente imprevedibile.
Ma il suo talento era senza confini. Quando Gascoigne voleva, poteva tranquillamente smarcarsi metà squadra avversaria. Sapeva segnare di testa, come fece nel derby romano del 1993. Quello in cui, tanto per intenderci, il telecronista inglese incaricato del racconto in diretta, esclamò:
“The saviour has saved Lazio!”.
«I’ve played in some big derbies before, up in Glasgow as well, but that wasn’t normal. Scoring was just an unbelievable feeling but it wasn’t a good feeling, it was more a feeling of ‘thank God for that’».
Gascoigne lo vedevi partire dal centrocampo e smarcarsi almeno un paio di giocatori.
Sapeva duettare coi compagni e tirare bene di destro come di sinistro. Aveva un capoccione adatto allo stacco aereo, un coraggio frutto magari più dell’incoscienza di un pazzo che del dovere di un soldato. Ma poco importa. Gascoigne era questo e molto altro.
Era un generoso, un irriverente. Ed è forse per questo che con Zeman non riuscì ad andare d’accordo. Troppo diverso da lui, il Boemo. Troppo diversa da lui anche la stampa, che gli stette addosso, in quelle tre fugaci e memorabili stagioni alla Lazio, come un riccio di mare al proprio scoglio. D’altra parte, come biasimarla, la nostra carta stampata.
In un piattume di frasi fatte, vedersi un inglese fuori di testa dire e fare certe cose, ogni giorno di nuove ed esilaranti, doveva essere un vero spettacolo. Davvero questo era Paul Gascoigne: uno spettacolo nello spettacolo.
Il 24 Gennaio 1993, ad esempio, Gascoigne non viene convocato per la sfida contro la Juventus, a causa di un problema fisico (così Zoff dice nel pre-partita, almeno). I giornalisti, non rispettando la volontà di Gazza di mantenere il silenzio stampa, lo intervistano en passant chiedendogli il perché di quell’assenza.
La risposta di Gascoigne è geniale; rutto ai microfoni e scandalo nazionale. La Stampa apre addirittura un’inchiesta sul gesto. La RAI si dice indignata e offesa. I laziali, nemmeno a dirlo, si stanno ancora rotolando a terra dalle risate.
Per sempre laziale
La sua avventura con la maglia della Lazio, dopo tre anni di gesti tecnici sublimi, pochi gol e molte amarezze, condite dalla continuità, quella sì, dei problemi fisici, finisce nell’aprile del 1994, quando durante una partitella d’allenamento un ragazzo della primavera, di nome Alessandro Nesta, scivola con decisione ed imprudenza sull’inglese dal cuore d’oro. È la fine dell’avventura di Paul Gascoigne con la maglia della Lazio; rottura del crociato ciao core, come diciamo a Roma.
Di quell’episodio drammatico, ancora una volta, rimane un racconto esterno.
Le parole sono di Alessandro Nesta, ma lo spartito è di Paul Gazza Gascoigne, once a Lazio always a Lazio:
«Una volta tornato dall’intervento alla gamba mi tranquillizzò dicendo che non era colpa mia e mi diede cinque paia di scarpe e un kit da pesca. Non ho idea del perché del gesto, ma era proprio da lui».
Alessandro Nesta