Bora Milutinovic non viene dal nostro pianeta. E per almeno due motivi.
Il primo è anagrafico. Nato a Bajina Bašta nel 1944, pare si sia ringiovanito di quattro anni. La vera data di nascita sarebbe il 1940. Chissà perché. Forse, un po’ come – blasfemia cantando – il Nostro Salvatore, anche Bora ha tanto influito sulla storia (dello sport, ma non solo) da far spendere sul suo conto tanti fiumi d’inchiostro quanti sono i misteri che ne circondano l’esistenza.
Il secondo motivo è invece biografico. Bora è l’unico uomo sulla faccia della terra ad aver girato il mondo seduto su una panchina. No, non è una scultura Bora, né un’opera d’arte – anche se su questo ci sarebbe molto da scrivere. È però lui stesso arte, meritevole senz’altro di una scultura.
Il suo talento, fin da giovane, lo premia e gli permette di girovagare per il globo terracqueo. Gioca in Francia: Monaco, Nizza, Rouen. Poi, un giorno, quando la sua carriera da calciatore sta già per intraprendere la parabola discendente, decide di cambiare tutto. All’epoca è un buon centrocampista, col pallone ci sa fare; alcune offerte già sono pronte a capitargli sotto al naso, ma Bora ha altri progetti per la testa.
Decide di cambiare prospettiva, di guardare il mondo con occhi diversi; soprattutto, di guardarlo da un’angolatura differente. Nel 1972, in un tempo in cui il calcio globalizzato e le multinazionali del pallone sono ancora – e grazie al cielo, diremmo – un’utopia, trova casa nel bel mezzo dell’America. Ai Pumas di Città del Messico, non proprio dietro l’angolo; di certo non vicino alla madre-patria Serbia.
Nascere poveri è una sfortuna, sposarsi una povera è da scemi
Il Messico, a Bora, dà tutto. Bora, al Messico, ricambia il tutto di cui è stato donato. L’amore, prima di tutto. Perché la sua dolce sposa la incontra qui, proprio a Città del Messico.
Ma c’è un altro amore che Bora coltiva in questa terra, che lo ringrazia col favore dell’eternità: è il calcio, il pallone, quel gioco per il quale impazziscono i popoli – oppio del XX e XXI secolo. Bene, ma a partire da dove? Coi Pumas Bora fa grandi cose, vincendo e stupendo con un’idea di calcio lontana dal caloroso e avvolgente modo di giocare dei messicani.
Intanto, poco prima di vivere uno dei mondiali più controversi e incredibili della storia, quello dell’86, Milutinovic si siede sulla panchina della stessa Nazione messicana. È il 1983 e inizia un matrimonio tanto speciale per Milu quanto quello con la propria consorte. È proprio sulla panchina Tricolor che Bora farà innamorare i tifosi non solo del Messico ma di tutto il mondo.
Prima dell’86, il miglior risultato del Messico s’era avuto nel 1970, edizione casalinga anche quella. Soltanto l’Italia di Gigi Riva, con un 4-1 roboante e storico per la nostra nazione, era riuscita ad imporsi nel derby tricolore, per chiamarlo in modo buffo ma sensato. Nel 1986, invece, il Messico di Milutinovic deve piegarsi solamente dinnanzi alla Germania Ovest; solamente ai calci di rigore. Sempre, tuttavia, ai quarti di finale. Quasi una beffa del destino, in un mondiale anche questa volta casalingo. Come se l’ardore e l’amore di una nazione intera fossero in entrambi i casi troppo forti e puri per rendere realtà un sogno.
Fatto sta che l’avventura del vagabondo della panchina inizia effettivamente in quella torrida estate del 1986. Da questo momento in poi, Milutinovic non si ferma davvero più. Senza sosta, in giro per il mondo, a portare le sue idee, il suo calcio, il suo gioco. Senza mai piegarsi di un millimetro, senza mai cedere un centimetro. Sempre con un sorriso smagliante a riempire il vuoto lasciato dalle ampie labbra; un sorriso tipico di chi ama il calcio e lo vede come lo scopo di un’intera esistenza.
Il giro del mondo in 80 panchine
Così, nel giro di qualche mese, Bora passa dal San Lorenzo di Almagro in Argentina, squadra santa e sacra per eccellenza – Jorge Mario Bergoglio docet –, all’Udinese, al Friuli così vicino alle origini serbe quanto così distante dal nuovo Milu, un uomo cresciuto, poco attaccato al suolo natio perché troppo – spesso – attaccato col manico di pelle alla valigia del vagabondo; quella che può ospitare idee, qualche soldo, il sorriso di chi ama il calcio ma non la conciliazione di due mondi impossibili. Falso.
Perché dopo l’Udinese arriva il Costa Rica; niente di più lontano dall’universo boriano. Niente di più vicino all’impresa impossibile, quella che propriamente compete a uno come lui. Ed ecco il risvolto magico della nostra magica storia. Italia 90. Notti magiche, e puoi dirlo forte, cara Gianna Nannini. Puoi urlarlo, Edoardo Bennato. Dietro le quinte immaginatevi lui, Bora Milutinovic, quel pazzo allenatore giramondo, pronto ad un’altra – incredibile, insensata – impresa delle sue.
E infatti, l’esordio è con vittoria, 1-0 alla Scozia. Poi segue una sconfitta onorevole contro il Brasile (1-0) e uno straordinario trionfo nella partita decisiva per la qualificazione agli ottavi di finale: 2-1 alla Svezia. Il Costa Rica entra ufficialmente nel mondo del pallone, e il mondo del pallone inizia ad interessarsi al condottiero serbo che ha portato i Ticos tra le prime 16 squadre del mondo. L’avventura finirà contro la Cecoslovacchia, squadra forte ma non imbattibile. Il treno di Bora è però partito. Soltanto un tuono può fermarlo. Ma è lui stesso questo tuono.
In vista del mondiale statunitense, l’USA chiama Bora sulla panchina a stelle e strisce, ma l’impresa è quasi fallimentare. In realtà i padroni di casa (siamo nel 1994, ovviamente) passano il girone, anche se come migliore terza (quattro punti in totale). Il problema degli ottavi si chiama Brasile, ed è un grosso problema.
L’allenatore dei 2 mondi
Addio al Mondiale per gli States, con Milutinovic che ha bisogno di una nuova avventura, di una piazza inesperta ma forte, potenzialmente invincibile, ma attualmente scarna. È la Nigeria dei mondiali 98. Siamo negli anni della dittatura, ma a dettare calcio, oltre a Milu in panchina, ci sono talenti senza senso. Solo per fare qualche nome: Babayaro, West, Okpara, Oliseh, Kanu, Amokachi, Babangida, Finidi, Ikpeba. Infine, uno che a guardarlo oggi non ci si spiega come non abbia fatto a vincere almeno il pallone d’oro: Jay Jay Okocha, il freestyler che giocava su un campo a 11.
Spagna e Bulgaria sono fatte secche come niente fosse, ma la sconfitta contro la Bulgaria, ininfluente per il passaggio al girone già acquisito, getta sulle aquile l’ombra del disordine: troppo talento può disturbare se non è tenuto a bada da un capitano d’ordine e grado. Questi è Milutinovic, per fortuna dei nigeriani. Forse. Perché le ombre viste in occasione dell’ultima del girone si ripercuotono, spaventose come una tempesta, agli ottavi contro la Danimarca, dove infatti la formazione nigeriana crolla, sprofondando insieme alla panchina di Bora, quasi offeso per quell’occasione che il destino ha voluto concedergli solo a metà.
L’ultima occasione di mettere in mostra tutto il proprio genio, per Milutinovic, si gioca al passaggio di secolo. È il 2002 e la Cina si qualifica per la prima volta alla fase finale di un Campionato del Mondo. La Cina non riesce a passare il turno, non segna neppure un gol, ma poco importa. Il Maestro Bora è entrato nella storia. In Cina lo amano tutti, come lo hanno amato precedentemente Messico, Costa Rica, USA, Nigeria. Cinque panchine diverse. America, Africa, Asia: tre differenti continenti, un unico file rouge: il pallone.
Non è finita qui. Siamo alla fine, però, questo è vero. Bora si siederà su altre panchine dopo quella cinese, portando il suo calcio in Honduras, Giamaica e Iraq. In attesa che il mondo abbia nuovamente bisogno del suo condottiero. Bora Milutinovic, l’allenatore giramondo.